Minuziosa, sofisticata, introspettiva, complessa e, a tratti, persino un po’ ridondante. Così ho percepito la scrittura di Werfel. Analitico fino all’eccesso, calato in un’analisi psicologica continua che non lascia spazio alle ipotesi. “Una scrittura femminile azzurro pallido” è un libro del 1941 e risente fortemente dell’atmosfera politica, storica ed intellettuale che al tempo si respirava in Europa.
Al centro della vicenda un uomo: Leonida. “Per quel nome opprimente non meno che eroico poteva dir grazie a suo padre, che a parte questa eredità, da povero insegnante di ginnasio qual era, non gli aveva lasciato altro che un’intera collezione di classici greci e latini, nonché dieci annate dei Tübinger altphilologische Studien”. Siamo in Austria, anno 1936, pieno autunno, Leonida compie 50 anni. E’ un uomo realizzato, potente, sicuro di sé: “Essendo stato nominato da qualche tempo capodivisione al Ministero per il Culto e l’Istruzione, era ormai diventato uno di quei quaranta o cinquanta funzionari su cui in effetti si reggeva lo Stato”.
Aveva avuto molta fortuna. Da giovane, aiutato da un frac, ricevuto in eredità da un suo compagno ebreo morto suicida, da un aspetto fisico particolarmente affascinante e dalla sua abilità nel ballare il walzer, Leonida aveva trovato nell’alta società la sua dimensione ideale. Introdotto in tali raffinati ambienti, si era lasciato conquistare dalla ricca Amelie Paradini che lo aveva sposato contro ogni previsione. Lei apparteneva a una famiglia viennese straordinariamente agiata ed influente.
Tra i vari biglietti ricevuti per il suo cinquantesimo compleanno, Leonida trova una lettera caratterizzata da una scrittura femminile azzurro pallido. Sa perfettamente a chi appartiene la mano che ha tracciato quelle lettere, sa perfettamente che una parte del suo passato, che lui aveva accuratamente tenuto lontano dalla sua vita e dal suo matrimonio, sta per riaffacciarsi prepotentemente nella sua esistenza. E’ sconcertato ma cerca di non darlo a vedere ad Amelie, donna gelosa, spesso imbronciata, sospettosa e perennemente preoccupata dal fatto che suo marito sia ammirato dalle donne.
Il primo impulso di Leonida è quello di distruggere la missiva ma, non volendo, nell’atto di strappare la busta, la apre. E’ lei: Vera. Una donna che per lui ha rappresentato l’essenza dell’autentico amore. Persona estremamente sensibile ed intelligente, un’ebrea colta, ricercata e sicura di sé. La breve ed intensa relazione con Vera era capitata diciotto anni prima, durante il primo anno di matrimonio con Amelie, nel corso di un breve soggiorno di lavoro in Germania. Un coinvolgimento totale e appassionato che Leonida descrive e racconta come una colpa da giustificare al cospetto di un Tribunale immaginario: “Per tutto ciò di cui d’ora in avanti voglio parlarvi, Vi prego, signori della Corte, di usare nei miei confronti un’indulgenza particolare”. Leonida aveva amato Vera, ma l’aveva anche abbandonata per tornare alla sua normalità e al suo matrimonio. Dal momento di quell’addio, falsamente pieno di promesse, Leonida non aveva più visto né cercato la donna. Ora lei si presentava a lui con una lettera. Leonida, attraverso quel messaggio, scopre però che Vera, in maniera molto formale, gli chiede semplicemente di intercedere per aiutare un giovane. La coscienza del cinquantenne ha un sobbalzo: Vera ha voluto fargli intendere, senza esplicitarlo, che quel ragazzo è suo figlio e che adesso è giunto il momento che lui se ne prenda cura. Leonida ed Amelie non hanno avuto e non hanno voluto figli.
Improvvisamente quel giovane diventa suo figlio. E figlio di un ebrea, quindi ebreo a sua volta. Posizione difficile nell’Austria della metà degli anni Trenta. Aiutare un giovane ebreo avrebbe potuto comportare responsabilità e prese di posizione difficilmente giustificabili agli occhi degli altri funzionari e dei politici. “Avere un figlio non è cosa da poco. Soltanto quando ha un figlio l’essere umano è irrimediabilmente gettato nel mondo, spietatamente inserito nella catena delle cause e degli effetti. Tutti noi siamo chiamati a rispondere di quello che facciamo. Non si dà soltanto la vita, ma la morte, la menzogna, il dolore, la colpa. Soprattutto la colpa!”.
Il primo passo è confessare tutto ad Amelie. Ma come? Con quali parole? Con quale coraggio? Leonida cerca invano delle colpe da attribuire a sua moglie in modo da rendere il suo pesantissimo torto un po’ più facile da perdonare. Ma quella che doveva essere una confessione durissima si trasforma e si capovolge in maniera quasi insperata. Gli eventi, stranamente, volgono a suo favore: è Amelie a chiedergli scusa per i suoi eccessi d’ira e di gelosia.
Il protagonista della storia è Leonida ma, forse, prima ancora di lui, al centro di tutto il romanzo c’è la sua coscienza. La parte più nascosta e vigliacca di un uomo apparentemente tanto indefesso, serio, incorruttibile. Anche l’incontro con Vera, avvenuto dopo diciotto anni dalla ignobile fuga, non gli dà la forza di scegliere né di abbandonare un universo fatto di certezze, lussi e formalità. Tutto torna al gelido equilibrio di sempre: “Io non sono né il filosofo Eraclito né un intellettuale israelita, sono soltanto un funzionario della pubblica amministrazione, e motti e sentenze non sono il mio forte. Quand’è che imparerò a comportarmi come una pecora nel gregge? Bisogna sapersi accontentare.”.
E’ l’ultimo breve capitolo di “Una scrittura femminile azzurro pallido” quello più emblematico ed intenso. Leonida è a teatro, crolla e si addormenta su una panchetta rossa imbottita: dorme e sa che sta dormendo. E sogna. Una radura solitaria: “Che sia già la malattia della morte, quella malattia che altro non è se non misteriosa, logica conformità con la colpa della vita?”.
Edizione esaminata e brevi note
Franz Werfel nasce a Praga nel 1890. Studia presso l’Università tedesca della città e qui ha i primi contatti con Max Brod. Nel 1911 pubblica le sue prime poesie e “L’amico del mondo”. Nel corso della I Guerra mondiale combatte in Galizia orientale e aderisce ad un gruppo rivoluzionario pacifista. Alla fine della Grande Guerra si trasferisce a Vienna e diventa noto per il suo impegno umanitario e pacifista. Pubblica alcune delle sue opere più importanti: “Noi siamo” (Wir sind, 1913), “Il giorno del giudizio” (Der Gerichtstag, 1919), e si cimenta anche nel ruolo di autore drammatico, con testi di natura espressionista: “La tentazione” (Die Versuchung, 1913), “Le Troiane” (Die Troerinnen, 1915, tratto da Euripides), “L’uomo specchio” (Spiegelmensch, 1920). Alla fine degli anni Venti incontra Schnitzler e, nel 1929, sposa Alma Schindler, vedova di Gustav Mahler. Nei primi anni Trenta viene espulso dall’Accademia prussiana per via delle sue origini ebraiche e in Germania i suoi libri vengono bruciati (1933). Con l’avvento di Hitler al potere Werfel inizia il suo esilio. Continua a pubblicare: “Barbara ovvero la devozione” (Barbara oder die Frömmigkeit, 1929), “I 40 giorni del Mussa” Dagh (Die vierzig Tage des Muza Dagh, 1933). Perseguitato dalla Gestapo, lo scrittore, poeta, drammaturgo fugge prima a Parigi e poi, dal Portogallo, si imbarca per raggiungere New York. Il 1941 è l’anno di pubblicazione di “Una scrittura femminile azzurro pallido”, ma anche del successo de “Il canto di Bernadette” (Das Lied von Bernadette), opera che Franz Werfel considerava come la sua personale “offerta” umana ed artistica per essere scampato alla violenza nazista, dalla quale venne tratto anche un film. Werfel, riconosciuto come uno dei più interessanti interpreti della “finis Austriae”, muore a Beverly Hills nel 1945, poco dopo aver terminato “Il pianeta dei nascituri”, pubblicato postumo nel 1946.
Franz Werfel, “Una scrittura femminile azzurro pallido”, Adelphi, Milano, 2005. Traduzione di Renata Colorni.
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