Inoue Yasushi aveva già 42 anni quando venne pubblicato “Il fucile da caccia”, il libro del suo esordio come narratore. Era il 1949.
“Il fucile da caccia”: romanzo epistolare raffinato, elegante, profondo. Una lettura fluida ed interessante, di quelle da non farsi mancare.
La vicenda ha inizio con la pubblicazione di una poesia, “Il fucile da caccia”, per l’appunto, sulle pagine della rivista “Amico del cacciatore”, modesto bollettino dell’Associazione venatoria giapponese. Un breve componimento ispirato all’incontro del poeta con un cacciatore durante una passeggiata invernale sul monte Amagi. L’immagine di quell’uomo solitario e silenzioso che, col fucile in spalla e la pipa da marinaio in bocca, calpesta il suolo ghiacciato sullo sfondo bianco dell’alveo di un fiume desolato, è il “motore” dell’intera storia. Infatti, poco tempo dopo la pubblicazione, all’autore giunge una missiva inviata da un uomo, Misugi Jōsuke, che dice di essersi riconosciuto nel cacciatore descritto ne “Il fucile da caccia”. Costui, inoltre, fa una richiesta piuttosto particolare al poeta: vorrebbe che leggesse tre lettere che ha ricevuto qualche tempo prima. L’uomo è una stupida creatura, che dopotutto aspira ad essere conosciuta da qualcuno.
Tre lettere da tre donne diverse. Ognuna di esse racconta il proprio stato d’animo e la propria storia, ma tutte giungono allo stesso epilogo: abbandonare per sempre Misugi.
La lettera iniziale è quella di Shōko. La ragazza, che ha appena perso la madre, ha scoperto una verità sconcertante: tra la donna e Misugi, che altri non è che il marito di sua zia, c’era una storia d’amore. Shōko si sente profondamente tradita. E’ stata ingannata da sua madre, che per tredici anni le ha tenuto nascosto la sua storia d’amore; ingannata da sua zia Midori, che lei ha sempre visto e considerato come una donna da emulare; ingannata da suo zio nei confronti del quale, oramai, non ha più alcuna fiducia.
L’altra lettera, le seconda, è quella di Midori, la moglie di Misugi. Una missiva diretta, schietta e per certi versi brutale. Anche Midori ha la propria verità da esporre: sa che tra suo marito e sua cugina Saiko c’era una storia d’amore e, soprattutto, ammette di esserne stata a conoscenza fin dall’inizio. Per tredici anni, comunque, ha portato avanti la vita coniugale ed ammette, con un certo candore, che anche da parte sua non sono mancati tradimenti e flirt con altri uomini. Ha sempre guardato da lontano suo marito, senza riuscire mai a decifrarlo, assistendo al totale disfacimento del matrimonio e fingendo di non sapere, non vedere, non capire. Con la morte di Saiko, la moglie tradita e traditrice si rende conto che non ha più senso continuare a mentire.
La terza ed ultima lettera è di Saiko. La donna, deceduta da pochissimo, ha lasciato uno scritto destinato al suo amante al quale confessa di aver provato, durante tutta la durata della loro relazione, un immenso senso di colpa. Lei aveva lasciato suo marito, il padre di Shōko, molti anni prima proprio perché lui l’aveva tradita ed aveva avuto un figlio da un’altra donna. Eppure era stata capace di tradire a sua volta: per tredici anni aveva amato il marito di sua cugina, ma adesso, cosciente della fine imminente, è decisa a lasciarsi andare con una sorta di testamento: la mia eredità e tutta qui, vorrei almeno lasciarti qualcosa di vero: è il mio intento più sincero. […] durante la mia vita non mi sono mai mostrata a te come ero veramente. La persona che ti sta scrivendo adesso sono davvero io.
Ogni lettera contiene un addio, accompagnato dall’urgenza di liberarsi dalla menzogna in cui Shōko, Midori e Saiko sono vissute per buona parte della loro vita. Ognuna delle tre donne è incalzata dalla propria solitudine e soffre per essere stata spinta, per ragioni diverse, a vivere nella finzione, anche di fronte a chi non meritava tale scorrettezza. Una finzione che diventa tanto radicata da ingannare anche chi la mette in atto. Apparire ciò che realmente non si è e portare avanti tale falsità per anni, però, diventa insostenibile per qualunque essere umano. Quindi, inevitabilmente, si giunge sempre al momento in cui è necessario fare i conti con la propria coscienza cercando, infine, di dare alla propria vita un senso nuovo.
Ed è questo tema, descritto con immensa emotività e delicatezza, che rende “Il fucile da caccia” un libro tanto amato ed apprezzato. L’anima dei personaggi è completamente denudata, il loro dolore e le loro angosce trovano, attraverso le parole eleganti e potenti di Yasushi, una dimensione cristallina e, nel contempo, disarmante e severa. La realtà può avere tante voci e tante facce, esattamente quelle di chi la vive. Nessuna condanna chiude il libro, nessuno spietato giudizio. Solo il silenzio comprensivo e dignitoso di chi è stato reso partecipe di un segreto rivelato con passione e consapevolezza.
Edizione esaminata e brevi note
Inoue Yasushi nasce nel 1907 ad Asahikawa. Proviene da una famiglia di medici ma, a differenza di suo padre, decide di laurearsi in estetica e filosofia. La carriera da letterato, però, rimane sospesa per diversi anni poiché Yasushi si dedica con particolare passione al lavoro di giornalista. Solo dopo la fine della II Guerra Mondiale, lo scrittore torna alla letteratura e pubblica la sua prima opera di narrativa, “Il fucile da caccia” (1949). L’apprezzamento per questo libro è immediato e totale. Yasushi, quindi, inizia a scrivere opere più complesse e lunghe: opere storiche, biografie, novelle e romanzi. Muore a Tokio nel 1991. In Italia è ancora scarsamente noto. Di lui sono stati pubblicati pochi libri: La montagna Hira (Bompiani, 1964); Ricordi di mia madre (Spirali, 1985; Feltrinelli, 1986), Il falsario (Il Nuovo Melangolo, 1995), La corda spezzata (Cda & Vivalda, 2001), Amore (Adelphi, 2006).
Inoue Yasushi, “Il fucile da caccia”, Adelphi, Milano, 2004. Traduzione di Giorgio Amitrano.
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