Jacchè, che per i continentali sta per Giacomo, ascolta spesso da suo nonno mannoi Iscusorgiu la storia di Bachis Voettone il sarto venuto dalla Barbagia divenuto famoso in tutto il mondo ma che venne travolto dal suo stesso destino. “Quando raccontava la storia di Bachis, mannoi inchiodava lo sguardo sulle radici del leccio che ombreggia l’imbocco del pozzo, e le sue rughe si riempivano di tristezza. Le gingive consumate e violacee mostravano l’osso della mandibola superiore che si piegava di lato in un ghigno ferino. Allora, solo allora era veramente vecchio e interrompeva il racconto poggiandomi la punta del bastone sul petto per dirmi: – Le nostre sono radichinas che non si lasciano tagliare Jacchè, ricordatelo adesso che stai studiando a dottore. Noi barbaricini abbiamo radici carnose al posto dei piedi. Portiamo la carena altrove, ma siamo sempre qui, legati come cani a un cippo di granito!“.
La vita di Bachis ebbe inizio il sei d’agosto, giorno della Trasfigurazione di nostro Signore. Giorno in cui sua madre, Masedda Trizza, lo partorì per strada, vicino al fiume. Bachis non aveva niente a spartire coi suoi fratelli: rosso di capelli, chiaro d’occhi e di pelle. Ottavo figlio di Tidoru Voettone che un figlio fatto così, tanto diverso da tutti gli altri, lo considerava quasi un bastardo. Se l’erano battezzato Teresa Foddeddu e suo marito Chicchinu Buttone a cui il Padre Eterno non aveva concesso la fortuna di avere figli. Bachis fin da subito aveva conquistato Teresa che lo amava prima ancora che nascesse e, dopo nato, se lo portava appresso ovunque andasse proprio come fosse figlio suo. Chicchinu il sarto gli passava scarti di stoffe e il piccolino era felice come una Pasqua. “Sembrava nato per fare il sarto Bachis, partorito da uno scampolo di stoffa, con l’ago in una mano, le forbici nell’altra e una bobina al posto del cuore“. Bachis imparò da solo a tenere un ago in mano per la felicità del suo padrino eppure a suo padre Tidoru un destino da sarto per quel figlio così strano non andava bene per niente. “Da domani, nella bottega del sarto, questo signorino non ritorna! A fare il servo pastore lo mando! E dove si è mai visto un Voettone affeminarsi facendo il sarto? Ma non lo vedi che a forza di cucire e rivestire bambole gli stanno crescendo più le titte dei coglioni?“.
Bachis a otto anni divenne guardiano di capre per imposizione paterna. Imparò la dura arte dei pastori e non aveva nemmeno più il coraggio di guardarsi le mani tanto erano rovinate dal lavoro. Eppure, nonostante tutto, il fato per lui aveva in serbo altri propositi. Tutto cambiò per via di un miracolo che toccò Tidoru ormai prossimo alla morte. Bachis ripassò dalle stalle alla sartoria, proprio come aveva a lungo sognato. E poco più grande, intorno ai 12 anni, ebbe persino l’occasione di andarsene in continente, nella capitale, ad imparare il mestiere da un sarto importante. L’inizio fu difficile ma Bachis seppe cavarsela tanto da farsi notare e farsi un nome. Con gli anni, lasciata la terra da cui era arrivato, riuscì a divenire famoso ed apprezzato in continente e fuori. Quindi ricco da togliere il sonno perché più Bachis diventava celebre, più modelle si portava a letto, più soldi entravano nelle sue tasche più il suo cuore diventava affranto. Sembrava proprio che l’incanto dei sogni che l’aveva spinto e sorretto negli anni si era guastato lasciandolo solo, perduto, disilluso ed inquieto.
Insomma di quel bambino con l’amore sviscerato per le stoffe e per il rumore della vecchia macchina per cucire di Chicchinu Buttone, una volta divenuto grande e famoso, non è rimasto granché. Una perdizione che, per un motivo o per l’altro, lo riconduce alla Barbagia, ad Ularzai, quel paesino senza orizzonte e senza speranza in cui tutto si ferma quando l’orologio della torre pisana batte la sesta ora dopo il mezzogiorno: toc! toc! toc! toc! toc! toc! Una sesta ora che richiama il tempo in cui Gesù venne inchiodato alla croce e in cui si fecero tenebre ovunque. La sesta ora del titolo, dunque, riprende il lugubre evento della morte di Cristo e la accosta ai rintocchi infelici dell’orologio di Ularzai che si fece maledetto quando una civetta decise di fabbricare il nido tra i suoi ingranaggi mutando lo scorrere del tempo e lasciando suonando le ore come venivano.
Un romanzo che ha tutte le caratteristiche di una fiaba, questo. Di Niffoi continuo ad amare lo stile, la lingua meticcia, la capacità di far sentire con gli occhi come fossero orecchie, l’abilità di rappresentare come un sortilegio un mondo ostico ed impervio come quello della sua Barbagia. Ho amato molto la prima parte della storia, la crescita di Bacchineddu e la sua formazione, ho trovato invece un po’ sfiancante e ripetitiva la fase successiva, quella della maturità e della dannazione del protagonista. Forse perché con l’avanzare dell’età e la consapevolezza di come andrà a finire si affievolisce ogni attesa e ogni magia. Ed è inevitabile terminare con le parole di mannoi Iscusorgiu che conclude così la storia di Bachis Voettone: “Jacchèddu meu, perdersi per bramosia di denaro o per lussuria, poco cambia, perché ritrovarsi, in questa terra, è comunque impossibile, non basta il tempo. Quello che è certo, è che l’inizio e la fine, nella vita come nelle storie, è sempre uguale!“.
Edizione esaminata e brevi note
Salvatore Niffoi è nato nel 1950 ad Orani, in Barbagia, provincia di Nuoro. Ha studiato Lettere a Roma e si è laureato nel 1976 con una tesi sulla poesia in sardo. Il suo primo romanzo si intitola “Collodoro” ed è stato pubblicato nel 1997 da Solinas. Nel 1999 pubblica per Il Maestrale “Il viaggio degli inganni” a cui fanno seguito “Il postino di Piracherfa” (2000), “Cristolu” (2001) e “La sesta ora” (2003). Invece i romanzi “La leggenda di Redenta Tiria”, “La vedova scalza” (Premio Campiello nel 2006) e “Ritorno a Baraule” sono pubblicato da Adelphi. “Pantumas” (2012) e “La quinta stagione è l’inferno” (2014) sono editi da Feltrinelli. “Il venditore di metafore” esce per Giunti nel 2017.
Salvatore Niffoi, “La sesta ora“, Il Maestrale, Nuoro, 2003.
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