Un libro sulla precarietà del mondo del lavoro? No. Un racconto familiare? Nemmeno. Un romanzo di formazione? Forse, ma non del tutto. Una lirica interiore? Anche, ma non solo. Inafferrabile come la sua protagonista, “Tutti schiavi in Portogallo” ricorda il celebre cane-lupo del cartone animato Balto che “non è cane, non è lupo, sa solo quello che non è!”
Marta ha poco più di trent’anni, viene da un piccolo paese del sud Italia, vorrebbe fare la stilista ma ormai non ci crede più nemmeno lei e adesso lavora in un call center a Lisbona. Come tutti quelli nella sua situazione prova un certo senso di colpa e di sconfitta ma sono sentimenti quasi imposti dall’esterno: “l’idea non le dava fastidio per un motivo concreto, ma più per un partito preso – degli altri”. Una considerazione che lascia interdetti per la sua efficacia in questi tempi dove il successo sembra essere un’ossessione collettiva.
La storia di Marta ci viene raccontata in terza persona, con una voce narrante che ogni tanto si rivolge direttamente al lettore, la vicenda è piuttosto semplice, copre un periodo temporale di poco più di un anno ed è divisa in quindici capitoli. Marta riuscirà ad arrivare alle soglie di un contratto a tempo intedeterminato, conoscerà un americano che sposerà quasi solo per motivi di visto e tornerà per qualche mese in Italia per affrontare gravi problemi familiari.
Lungo la strada troviamo personaggi evanescenti, come Marco, artista e costruttore di bizzarre “macchine sentimentali”, l’americano Josh, il dottor Martins che appare in sogno a Marta e la consiglia, i genitori e il fratello che forse sono tra le cause principali del suo senso di colpa per essere andata via “solo” per lavorare in un call center, le coinquline che le danno una mano nei momenti di bisogno e la psicologa che la aiuta ad affrontare un momento difficile dopo essere tornata in Portogallo.
Molti sono i riferimenti geografici che riguardano Lisbona e i suoi dintorni, nomi di quartieri, vie, monumenti, parchi, le descrizioni sono molto precise. Al contrario, i capitoli ambientiati in Italia sono più vaghi, eterei, nebbiosi, forse un espediente narrativo per ricreare la situazione tipica degli espatriati, per i quali casa non è più casa e tutto appare alieno anche se in qualche modo ancora familiare.
Alla fine Marta vivrà un’ultima grande esperienza che le fa capire la vera ragione che l’aveva spinta a lasciare casa, arriva alla conclusione di essere stata per tutta la vita solo una schiava degli eventi e vorrà cominciare a controllare il suo futuro. Un finale quasi catartico, che risolve forse in modo un po’ troppo sbrigativo tutti i nodi della trama e i complessi meandri della psiche della protagonista.
Come detto all’inizio questo non è un racconto sulla generazione di giovani espatriati, certo ne affronta alcuni temi, ma non pretende di spiegarne le cause generali, al massimo lancia qualche spunto polemico sulle loro oggettive difficoltà a restare in Italia ma la situazione è solo sullo sfondo perchè i veri protagonisti sono Marta e la sua vita. Consiglio questo libro a coloro che si sono innamorati di Lisbona e hanno visitato il Portogallo e ovviamente ai giovani espatriati, che potrebbero ritrovarsi molto in alcune di queste pagine.
Edizione esaminata e brevi note
Andrea D’Angelo nasce a Napoli nel 1988. È autore di racconti come Realia e Lucifero Vocifero, pubblicati online da Orientexpress nel 2014, e del romanzo breve L’inafferrabile estetica delle scelte azzardate, pubblicato nel 2015 da Erga Edizioni, dal 2015 cura il blog Penelope a pretesto. Ama i viaggi dai ritmi lenti e dagli alberghi confortevoli, la letteratura che indaga gli aspetti agrodolci dell’esistenza e tutti i piaceri della vita.
Andrea D’Angelo, “Tutti schiavi in Portogallo”, Ofelia Editrice, Lecce, 2018.
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