Raccontato alla stregua di un thriller, “Il filosofo e lo jihadista” è la testimonianza di Jean-Yves Leloup alle prese con Mohammed, un terrorista islamico ed aspirante suicida: correva l’anno 2005, il nostro filosofo si trovava in Francia quando lo chiama Fatima, sorella di Mohammed, “quello che ha incontrato nel deserto del Marocco”. Le parole della giovane sono allarmanti: “Mio fratello è impazzito, è appena partito per Roma, mi ha detto che è finalmente giunta l’ora, che stava per diventare un martire. Allah gli ha appena chiesto di far esplodere la cappella Sistina..” (pp.11).
Leloup quindi non ha fatto altro che recarsi subito a Roma per tentare di dissuadere Mohammed, ormai completamente invasato e deciso a “colpire lo spirito stesso dell’Occidente”. Un personaggio che già anni addietro, in Marocco, si era fatto riconoscere per le sue “affermazioni puntellate ogni volta da versetti del Corano sempre decontestualizzati” (pp.21). Il racconto prosegue col nostro filosofo ormai diventato ostaggio dell’aspirante martire, malgrado le forze dell’ordine siano nei paraggi pronte all’intervento. Mancano poche ore all’ora programmata per il martirio e il dialogo tra Jean-Yves Leloup e Mohammed si fa sempre più serrato.
Il tentativo di dissuasione diventa analisi approfondita del Corano – “Se conosci il Corano, allora leggilo tutto”, pp. 38 – del suo senso più profondo, proponendo risposte alternative rispetto quelle del fanatismo islamista: “Che significa jihad? Violenza contro l’ingiustizia? C’è un altro approccio, un jihad superiore?”. Il cristiano Leloup è infatti un profondo conoscitore dell’Islam, e inizialmente nemmeno le parole di Ibn Arabi sembrano sortire effetto di fronte alla furia di Mohammed: “Questa cecità di chi guarda le teofanie senza vederle, quest’ignoranza è, per il nostro maestro Ibn Arabi, la radice stessa del peccato e la sostanza stessa del suo gastigo” (pp.49). Poi è lo stesso concetto di jihad che viene messo in discussione, facendo incollerire ancor di più il giovane fanatico: “Stai sbagliando jihad, sbagliando guerra santa. Il crimine non è mai santo, e quando è fatto in nome di Dio rappresenta la peggior bestemmia” (pp.53). Secondo Leloup “il jihad senza itjihad [ndr: sforzo di riflessione] può condurre soltanto alla rovina dell’Islam e della religione. Come la fede senza ragione o la scienza senza coscienza non possono che portare alla rovina dell’uomo (Rabelais)” (pp.55).
Questi frequenti equivoci interpretativi, la confusione tra jihad inferiore e superiore, nascerebbero da una scarsa conoscenza della storia e dall’idea che esista un Corano sempre e comunque coerente; mentre esistono versetti che ne abrogano altri ma che convivono pur sempre nello stesso testo: “Non abrogheremo un versetto né te lo faremo cadere nell’oblio, senza dartene uno migliore o eguale. II, 106” (pp.74). Infatti, “gli insegnamenti dispensati alla Mecca contengono i principi fondamentali dell’Islam, mentre i precetti dati a Medina sono contingenti, legati ai contrasti affrontati dal Profeta nel suo desiderio di imporre la propria religione con la forza. Ciò che nasce dalla circostanze del luogo e del momento e che, per colpa dell’umana imperfezione, sfocia necessariamente in compromessi, deve essere abolito ogni volta che il livello di coscienza e di maturità lo permette” (pp.75). Argomenti che, di fronte all’imminente pericolo, hanno sopraffatto lo stesso Leloup: “Ero un uomo disarmato, di fronte a una violenza che non cercavo più di sconfiggere, e che neppure mi poteva vincere”. Il confronto infatti prosegue sempre più drammatico fino al momento in cui Mohammed viene sopraffatto. In un primo momento, sventato il pericolo di una strage, tutta la discussione teologica e interpretativa sembra essere servita soltanto per prendere tempo e consentire l’intervento delle forze dell’ordine. In realtà le successive considerazioni del filosofo rappresentano la premessa di quello che capiterà a Mohammed: “I terroristi religiosi nascondono spesso nichilisti atei, il nulla è il loro Dio” (pp.97). Quanto contenuto nell’ultima lettera del terrorista islamico, ormai reso inoffensivo, potrà apparire una vera sorpresa, e appunto per questo motivo non vogliamo svelare nulla.
Di sicuro questa testimonianza, tra saggistica e narrativa, ben scritta e del tutto comprensibile nonostante le frequenti incursioni nel campo teologico, risulterà sgradita sia ai cosiddetti integralisti islamici che ai militanti dell’antislamismo: l’idea di uno jihad superiore e un’interpretazione di Islam che fa i conti con la Storia e i limiti umani mina le basi dell’integralismo degli uni e degli altri. Come ha scritto Nicola Baudo nell’introduzione italiana al libro, il merito de “Il filosofo e lo jihadista” è in fondo quello di “aver elevato il discorso, donando nuovi mezzi di comprensione – pertanto di contrasto – dell’integralismo in tutte le sue forme” (pp.7).
Edizione esaminata e brevi note
Jean-Yves Leloup (Angers, 1950) è un presbitero, teologo e scrittore francese. Autore di oltre cinquanta opere, tra cui un’autobiografia, “L’Absurde et la grâce” pubblicata in Francia nel 1991, non tradotta in italiano. È stato monaco domenicano, attualmente è prete ortodosso. I temi centrali della sua riflessione sono lo studio delle origini del cristianesimo, l’ecumenismo, il dialogo inter-religioso, la pace, affrontati alla luce della sua formazione pluridisciplinare e dell’intensa esperienza personale. È all’origine di diverse iniziative ecumeniche in particolare in Francia e in Brasile. È inoltre membro della “Organisation des Traditions Unies”, Dottore Honoris Causa all’Università di Colombo, Sri Lanka.
Jean-Yves Leloup, “Il filosofo e lo jihadista”, Lemma Press (Collana “Età d’argento”), Bergamo 2018, pag. 120. A cura di Nicola Baudo.
Luca Menichetti. Lankenauta, maggio 2018
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