Quel riferimento alla “detective story” che leggiamo in quarta di copertina non lo dobbiamo prendere alla lettera, ma sicuramente Laura Spinney, col suo libro, nel raccontare le possibili origini della pandemia del 1918-1919 e quello che ne è scaturito, è riuscita ad affrontare un argomento estremamente complesso da diversi punti di vista – scientifico, storico, economico e culturale – con un linguaggio divulgativo e senza dimenticare quegli aspetti che sono rimasti in ombra nonostante l’impegno pluridecennale di storici e scienziati. In questo senso la “detective story”, di cui conosciamo assassino, molte delle vittime e probabilmente il movente o una sua parte. L’assunto di Laura Spinney è che la cosiddetta “influenza spagnola” – un nome che non premiò certo la Spagna, paese non belligerante e privo di censura che quindi diede notizia della pandemia – fu talmente devastante da potersi considerare “il killer più feroce del XX secolo”, con almeno il 5 per cento della popolazione mondiale sulla coscienza. Un killer che, tra l’altro, uccise celeberrimi artisti e intellettuali come Guillaume Apollinaire, Edmond Rostand, Egon Schiele e Max Weber.
Da questo punto di vista possiamo citare lo storico statunitense John M. Barry e il suo “The Great Influenza”: “La “spagnola” uccise in un anno più persone che la Peste Nera del Medioevo in un secolo e in ventiquattro settimane quanto l’AIDS ha ucciso in ventiquattro anni”. Milioni e milioni di morti che fino a pochi anni fa non sono stati considerati più di tanto dalle cosiddette scienze sociali e storiche: una tragedia di fatto sminuita a causa della guerra mondiale ancora in corso, con tanto di censura a pieno regime. Viste queste premesse l’autrice non ha potuto non rimarcare quanto l’opera dei paleoclimatologi, degli scienziati e degli storici si sia rivelata complicata nel ricostruire le cause della pandemia, le ipotesi sulle origini, il suo percorso – un viaggio tra Francia, Stati Uniti, Cina, India, Brasile, Persia, Spagna, Sudafrica, Ucraina – e gli effetti decisivi sulle attività umane a partire dagli anni venti del secolo scorso.
Studi che hanno iniziato a dare i loro frutti quando lo sguardo dei ricercatori si è rivolto altrove, in sinergia con colleghi impegnati in altre branche del sapere. Infatti, ci racconta Laura Spinney, “a lungo gli storici hanno ignorato l’importanza delle malattie infettive come attori della storia, non sospettando un tale squilibrio nei loro effetti sulle diverse popolazioni […] È stato grazie al lavoro dei paleoclimatologi che gli storici si sono resi conto di quanto avessero sottovalutato il fenomeno” (pp.30). Parimenti la cultura dei primi anni del Novecento avrebbe avuto un ruolo decisivo nel raccontare in maniera distorta la pandemia: “l’eugenetica oggi è un tabù, ma nel 1918 era una tendenza dominante, e condizionò profondamente le reazioni all’influenza spagnola” (pp.39). Idee che adesso non reggono più, mentre la scienza ha sostanzialmente ribaltato quelli che adesso possiamo considerare autentici luoghi comuni fondati sul pregiudizio e che, almeno in parte, potrebbero minare le basi di quello che è stato e viene considerato progresso. In relazione alle più recenti ricerche, l’autrice scrive delle parole non proprio rassicuranti, che rileggono la massima della “natura matrigna”; e soprattutto la storia globale della terra colonizzata dall’homo sapiens: “L’ipotesi è che noi umani abbiamo attivamente portato le riserve tra noi – creandone persino delle nuove – con l’addomesticamento degli animali selvatici […] Grazie alle nostre pratiche zootecniche, in altre parole, stiamo immettendo geni dell’influenza nella natura”. Insomma, “il nostro diritto di incolpare gli altri traballa sempre di più. Se gli orologi molecolari non sbagliano, gli esseri umani hanno contribuito alla loro stessa tragedia nel 1918 e anche dopo” (pp.217).
Il racconto di Laura Spinney – ripetiamolo – c’è sembrato equilibrato, completo (pagine che potranno interessare sia gli storici che i sociologi, i geografi, i medici, gli scienziati in generale) ed anche con toni che hanno poco a che fare con il cosiddetto scientismo. Il dubbio non viene del tutto offuscato dalle conquiste della scienza ed anche nei confronti delle medicine non scientifiche non si riscontrano anatemi alla Garattini: “Nel 1918 la medicina occidentale non era ancora largamente accettata in India e la stragrande maggioranza delle persone si affidava ancora all’ayurveda. L’efficacia di questi rimedi – come di quei vaccini – è discutibile, ma gli studenti arrivarono fin nei villaggi più remoti del distretto, entrando in contatto anche i gruppi sociali più arretrati; compresi, per la prima volta, gli adivasi” (pp.279).
Ricerche e racconti che assumono quindi un significato anche per il nostro futuro – qui altro aspetto inquietante – non fosse altro, come ricorda Laura Spinney, “anche se prima del 1918 non c’era mai stata un’epidemia influenzale di quel tipo” (pp.315), gli scienziati hanno capito che potrebbe verificarsi di nuovo.
Edizione esaminata e brevi note
Laura Spinney, giornalista scientifica, scrive per numerose testate tra cui il «National Geographic», «The Economist», «Nature» e «Daily Telegraph», ed è autrice di due romanzi. Nata nel Regno Unito, ha vissuto in Francia e in Svizzera.
Laura Spinney, “1918. L’influenza spagnola”, Marsilio (collana “Nodi”), Venezia 2018, pp. 320. Traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli.
Luca Menichetti. Lankenauta, maggio 2018
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