Ogni volta che leggo un libro di Enzo Bianchi mi sento rasserenata e ringrazio Dio per avermi dato la possibilità di conoscerlo attraverso i suoi scritti e di frequentare la sua comunità, a Bose.
Così è stato anche per questo suo nuovo testo sulla vecchiaia, un’età della vita cui anche l’autore sente di appartenere ormai, un’età paragonabile in natura all’autunno, nella quale ci si addentra come un novizio: così accade sempre per ogni tappa della vita.
È una fase più calma, lenta, velata di tristezza a volte, ma che può dare ancora soddisfazioni, piaceri e che soprattutto va vissuta in pienezza, accettandola, non subendola passivamente o vedendone solo gli aspetti negativi.
Molti autori hanno parlato della vecchiaia e anche nella Bibbia, il libro dei libri, non mancano figure di vecchi (come Simeone, che proclama la bellissima preghiera del Nunc Dimittis) o riferimenti a questa condizione nei Salmi.
Enzo Bianchi vuole presentarci un testo che sta tra il saggio e la narrazione diaristica della vecchiaia, racconta com’é per lui questa fase della vita, come la vive, quali difficoltà incontra e come cerca di arginarle. Si passa dalla vita spirituale a considerazioni molto pratiche (l’installazione di un corrimano lungo la scala che lo conduce in camera, le difficoltà a percepire la luce con la stessa intensità di un tempo o a chinarsi per coltivare il suo piccolo orto).
È un libro scritto da un monaco che vive per molto tempo isolato, nella sua cella ai margini del bosco, eppure dimostra una conoscenza straordinaria degli uomini, delle loro abitudini, del loro modo di vivere, del loro animo. È un segno che li ha molto ascoltati con attenzione e com-passione.
Dalle pagine si ricevono grandi doni in saggezza, equilibrio, bontà, senso di armonia con la natura, umanità, mai ci si sente giudicati, semmai compresi.
Enzo Bianchi conosce bene gli uomini e rivela loro un Amore (quello divino) più grande, lo si sente nelle sue parole, lo si vive nella sua comunità e nello stile che ha voluto imprimerle. Per lunghi anni ne è stato il priore (e fondatore), da poco più di un anno, proprio per l’età, ha lasciato il suo posto a un confratello, dopo aver a lungo preparato questo suo ritiro.
Ecco, uno degli atti da compiere con la vecchiaia è sapersi far da parte, lasciare molti incarichi che rendevano la vita iperattiva e ricordare, riflettere, avere più tempo per coltivare la propria vita interiore.
Sono molti i suggerimenti che Bianchi offre per una vecchiaia decorosa, raccontandoci la sua personale esperienza e basandosi sull’insegnamento dei vecchi contadini del Monferrato che tanto gli hanno tramandato.
È possibile così dedicarsi un po’ all’orto o al giardino (o al limite alle piante sul balcone, aggiungerei), cucinare, leggere di più, scrivere, ricordare, raccontare, passeggiare e cogliere con animo luminoso e ancora capace di stupirsi i piccoli segni che la natura ci offre: fiori che spuntano, piante, animali, la luce nelle varie ore della giornata, l’alternarsi delle stagioni.
Indubbiamente la paure dei vecchi sono tante: della solitudine, della malattia invalidante, della demenza, e sono paure giustificate, non essendoci oggi una cultura che accetti veramente l’invecchiamento, per cui si tende a mettere da parte i vecchi, a non frequentarli e ascoltarli più. Il percorso è perciò più arduo, mentre nella civiltà contadina gli anziani erano in casa e si poteva vederli quotidianamente, ascoltarli e si percepiva l’invecchiamento come qualcosa di naturale, di logico.
Bianchi ci dice che la vecchiaia non è un tempo inutile, perché è ancora vita.
“Grama la vita per i vecchi, comincio a sperimentarlo, anche se resisto e lotto perché voglio vivere la vecchiaia: non aggiungere giorni alla mia vita, ma aggiungere vita ai miei ultimi giorni.
Certo, per un cristiano la vecchiaia – come già si è accennato – è l’età di fare preparativi pasquali, di predisporre tutto affinché la morte sia un atto puntuale in cui si restituisce a Dio il dono che lui ci ha fatto, cercando di dire: «Ti ringrazio, Signore, perché mi hai creato e mi hai custodito fino a oggi».”
Finché si è vivi e per il solo fatto di esserlo, bisogna cogliere il dono e goderne in pienezza. Bianchi ci offre un libro sulla vita e non sulla preparazione alla morte, come ci si aspetterebbe dall’argomento, è un testo delicato, a volte struggente, laico, pieno di gratitudine per il creato intero e per la vita e i suoi doni.
E quando le condizioni di salute diventano così precarie da richiedere assistenza artificiale? Da noi manca una cultura del dolore e perciò la malattia che porta alla morte crea ancora più ansia e tormento.
Scrive Bianchi: “Da cristiano so che la mia morte deve essere un atto: voglio viverla come ho vissuto la vita della quale la morte fa parte, voglio affidarla nelle mani di colui che mi ha chiamato in vita e mi attende con le braccia spalancate per stringermi a sé al di là della morte. Devo però anche confessare che mi fa paura finire nelle mani di persone che decideranno della mia dipartita senza potermi ascoltare. Credo nel diritto a morire con dignità, sono convinto che la prosecuzione della vita fisica non è di per sé il principio primo e assoluto e che il dolore fisico non purifica, non redime, ma quasi sempre disumanizza. Per questo ho voluto redigere il testamento biologico o dichiarazione anticipata, per precisare le condizioni auspicate per il mio fine vita”.
Quanto alla speranza, non può stare che nell’amore per Cristo, “l’amore è più forte della morte” recita il Cantico dei Cantici e questa è la convinzione (non una certezza, non una conoscenza) anche di Enzo Bianchi, ma è una speranza che vale per tutti gli uomini: “l’amore che vince la morte è un messaggio che vale la pena di vivere già qui e ora”.
L’amore resta, al di là di qualsiasi limite.
Edizione esaminata e brevi note
Enzo Bianchi (CastelBoglione-Monferrato 1943), monaco, fondatore della Comunità di Bose.
Enzo Bianchi, La vita e i giorni. Sulla vecchiaia, Bologna, Il Mulino 2018.
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