“Nuotare con un elefante tenendo in braccio un gatto”: un titolo atipico che restituisce un’immagine surreale. Impatto ad effetto assicurato, questo è certo. Della Ogawa ho già letto ed apprezzato, in passato, “La formula del professore” che ha diversi tratti in comune con il romanzo più recente pubblicato da Il Saggiatore. Anche qui ritorna il tema del silenzio, dell’incomunicabile, della ricerca di un linguaggio che non sia strettamente verbale. Mi piace rilevare che in un’epoca come quella che stiamo attraversando dove parlare è per lo più urlare, dove tutti tentano di surclassare tutti, dove il clamore, il rumore, la confusione sono strumenti ritenuti necessari ad attrarre attenzioni e generare morbosità, la Ogawa riesca a soffermarsi con eleganza e pacatezza sulla necessità di non dire ad ogni costo, di spegnersi e lasciarsi dimenticare, di eclissarsi e dissolversi in silenzio. Nessun fragore, nessun allarme. Semplicemente lo scorrere morbido e imperscrutabile dell’esistenza, un lento percorso utile al solo dispiegamento del proprio destino.
La conferma che “Nuotare con un elefante tenendo in braccio un gatto” sia una sorta di gigantesca fiaba arriva subito: basta leggere le prime pagine del romanzo. Il bambino, che nella storia non ha un nome proprio, ha sette anni e si trova sulla terrazza del grande magazzino dove ogni tanto si reca con nonna e fratellino. È un luogo magico ed evocativo, quello. Oltre alle solite giostre che a lui nemmeno interessano, su quella terrazza c’è un angolo speciale con un cartello che racconta una storia bella e triste allo stesso tempo: “qui spirò Indira, elefantessa venuta dall’india in occasione dell’inaugurazione di questi grandi magazzini. il contratto prevedeva un prestito per il periodo in cui era un cucciolo, prima del successivo trasferimento allo zoo, ma era così amata dal pubblico che ci si lasciò sfuggire il momento adatto alla restituzione, e la stazza ormai eccessiva rese impossibile la sua discesa dal tetto. Per tale motivo trascorse tutta la sua vita su questa terrazza, guadagnandosi la simpatia dei bambini per trentasette anni“. Indira imprigionata a mezz’aria sulla terrazza di un grande magazzino. Indira troppo grande per essere riportata sulla terra. Indira che rallegra bambini per tanti anni senza lamentarsi o adirarsi. Indira che alla fine muore senza aver mai conosciuto altro che quel piccolo spazio a lei riservato.
Oltre alla presenza di Indira, nella vita del bambino c’è anche quella di Mummia. Un nome un po’ strano per una bambina ma si tratta di una bambina eccezionale scomparsa nel nulla tanto tempo prima. Si racconta che Mummia, in realtà, si fosse infilata nella stretta fessura che separa la casa dei nonni da quella accanto e da lì non fosse più stata capace di uscire, “lei era rimasta lì, trasformata in mummia, ancora oggi incastonata nel muro“. È con Mummia che il bambino parla in silenzio la sera quando si infila nel letto a forma di scatola che suo nonno falegname ha costruito per lui. Siamo di fronte ad un bambino molto singolare, non c’è dubbio. Un bambino poco incline a parlare e non perché somigli al nonno taciturno ma per via di un segreto che si porta addosso da sempre: è nato con le labbra sigillate. “Appena nato, il ragazzino aveva l’aria di aver deciso che non fosse il caso di mostrare a chicchessia l’oscurità nascosta nella sua bocca e, allo stesso tempo, sembrava sentirsi perso, con il suono della sua voce che, senza vie di sfogo, gli ingombrava il petto“. Una sorpresa per i medici, inquietati da un neonato che non emetteva alcun suono. Dio aveva forse indovinato tutto ma il chirurgo era intervenuto per aprire quelle labbra con un taglio di bisturi, trapiantando sulle labbra del bimbo un pezzo di pelle asportato dal suo stinco.
Indira e Mummia sono le uniche amiche del bambino. Almeno fino a quando, quasi per caso, all’interno di un vecchio bus abbandonato, il bambino incontra l’uomo grande e grosso che in quel bus vive con il suo gatto Pedone. Un omone dalla stazza incredibile che ha due immense passioni: i dolci e gli scacchi. Il bambino si avvicina titubante ma in breve tempo il grosso uomo riesce a conquistarlo preparandogli merende golosissime e insegnandogli l’arte degli scacchi. Il bambino viene così introdotto in un universo che mai avrebbe immaginato, in quel mare infinito in cui, proprio come narra il titolo, imparerà a nuotare con un elefante e tenendo in braccio un gatto. “Più che nuotare sembrava proprio danzare di gioia. Poi Mummia entrava in una bollicina d’aria uscita dalla bocca di Pedone, e fluttuava sulle correnti provocate da Indira. Era riservata come al solito, ma attraverso la membrana trasparente della bolla si distingueva nettamente il suo grazioso sorriso. Le labbra appena nate, Indira e Mummia avrebbero dovuto essere di grandezze molto diverse, eppure Indira riusciva a entrare nelle bolle con Mummia e il bambino riusciva a sollevare Indira con l’estremità delle labbra. Nessuno lo trovava strano“. Nella poesia e nell’incanto degli scacchi il bambino trova la sua dimensione e la sua essenza: giocare lo porta lontano, lo lascia fluttuare in un cosmo liquido e perfetto in cui non servono parole e non si vivono disagi.
Quel bambino crescerà senza crescere. Il suo corpo si rifiuterà di andare oltre le dimensioni di un undicenne. La fiaba proseguirà portandolo a scoprire altre suggestioni e nuove sofferenze. Lo chiameranno Little Alëchin in onore del grande scacchista russo considerato il poeta degli scacchi. Ma è una storia che vale la pena leggere con i propri occhi e che non ha senso raccontare ulteriormente. C’è tanta magia in questo romanzo e tanta delicatezza. Leggerlo vuol dire attraversare un sogno composto per lo più dalle sensazioni e dalle visioni di un bambino molto speciale che non si ritrova e non si riconosce nel mondo in cui vive ma in un mondo immaginario e senza limiti creato grazie alla poetica di un gioco antico e complesso. L’arte degli scacchi diviene il suo modo di avvicinarsi agli altri, il mezzo per percepire la mente e l’anima di chi si siede di fronte a lui davanti alla scacchiera. Non serve saper giocare a scacchi per apprezzare la bellezza della storia narrata da Yōko Ogawa. La sua prosa è sempre fluida e controllata, ricchissima di descrizioni minuziose anche se in certi momenti, a mio avviso, un po’ sfibranti. La presenza della voce diretta della scrittrice non c’è e non serve perché basta la forza e l’originalità dei personaggi a reggere l’intero impianto di un romanzo che si fa fiaba e che, attraverso la fiaba, ci trasporta in una dimensione sognante, grottesca e tragica allo stesso tempo.
Edizione esaminata e brevi note
Yōko Ogawa è nata a Okayama nel 1962 ed è considerata una delle più importanti scrittrici giapponesi contemporanee. Si è laureata in Lettere nel 1984 presso la Waseda University ed ha iniziato a lavorare per la segreteria della facoltà medica di Kawasaki. Il suo primo romanzo, ancora non tradotto in italiano, viene pubblicato nel 1988. Negli anni a seguire scrive altre opere e, grazie al suo talento, conquista vari premi letterari nazionali ed internazionali. Uno dei suoi romanzi più importanti è “La formula del professore” divenuto in Giappone un best seller da cui è stato tratto anche un film. Le opere della Ogawa tradotte in italiano sono: “Hotel Iris” (Tropea, 2005); “La Casa della luce” (Il Saggiatore, 2006); “L’anulare” (Adelphi, 2007); “La formula del professore” (Il Saggiatore, 2008); “Una perfetta stanza d’ospedale” (Adelphi, 2009); “Profumo di ghiaccio” (Il Saggiatore, 2009); “Vendetta” (Il Saggiatore, 2014); “Nuotare con un elefante tenendo in braccio un gatto” (Il Saggiatore, 2015).
Yōko Ogawa, “Nuotare con un elefante tenendo in braccio un gatto“, Il Saggiatore, Milano, 2015. Traduzione di Laura Testaverde. Titolo originale “Neko wo Daite Zō to Oyogu” (2009).
Pagine internet su Yōko Ogawa: Wikipedia
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