Sei proprio un fallito, si dice Salvatore Falzone, autore e protagonista al tempo stesso del romanzo L’Arte di rialzarsi. Lo troviamo ad autocommiserarsi già dalle prime pagine, quando attende in segreteria di espletare le pratiche per lasciare la scuola, un’altra volta. Quattro ricoveri psichiatrici alle spalle; un passato recente di autolesionismo; un tentativo di suicidio; una provvista di psicofarmaci assunti nelle più svariate combinazioni. Niente sembra allentare quella stretta che lo opprime e lo priva di energie al punto da non poter più studiare: la stretta della depressione.
Sente di aver fallito in tutto, Salvatore. Un bilancio incomprensibile, visto alla luce dei suoi diciott’anni. Tuttavia, tenta un’ultima disperata mossa: la fuga, da Alessandria; da una casa che odora di malessere; da una madre, anche lei, con un passato di depressione; dai capricci di una sorellina viziata e non desiderata; per ripiegare a Roma, presso la nonna e gli zii, dove l’anno precedente aveva trascorso un periodo sereno in compagnia della cugina prediletta, Samanta.
Arrivato a Roma, la scrittura si affossa in dialoghi puntigliosi, descrizioni particolareggiate, quasi pedanti, che vertono su circostanze apparentemente superflue: piccole scaramucce, fatterelli, pettegolezzi di famiglia. Un mondo, quello di Roma, fatto di cose normali. Salvatore si sofferma su dettagli di vita quotidiana, ordinaria, in cui non succede nulla, e che però impattano pesantemente sul suo stato psichico, perché sono filtrati dagli echi distorti di una voce interiore che non tace, e gli ricorda che lui a quella normalità non potrà mai appartenere.
In un tempo — il nostro — tronco, veloce, dove si legge in momenti rubati, sottratti a giornate frenetiche, cavalcando sensazionalismi e colpi di scena, Salvatore Falzone indugia in una narrazione lenta, indolente. Gli odori casalinghi, di sugo, di fumo; la cucina untuosa della nonna; l’umidità, il freddo della casa di Roma, si accostano a un’analisi paranoica di segnali sottili: sorrisi incerti, alzate di sopracciglia, parole non dette, intenzioni sottese, riconfermando anche a Roma quel persistente senso di rifiuto e non appartenenza che lo tormenta.
Sua cugina, peraltro, è cambiata: ora ha un lavoro, una carta di credito, cammina in modo diverso, parla in modo diverso. Roma non risponde all’esigenza di un mondo fermo, cristallizzato; non soddisfa la ricerca di un perfezionismo statico, che non ammette eccezioni.
Salvatore torna ad Alessandria, disilluso e consapevole di non poter fuggire dalla propria inquietudine. La caduta è durissima. E lo mette — ancora una volta — di fronte al bivio: rialzarsi o morire.
In una società votata all’esibizione, che propaga immagini di successo ipertrofiche, gonfie, il romanzo d’esordio di Salvatore Falzone si pone in netta controtendenza. Sviscera in modo spietato debolezze e tracolli del protagonista, offre uno spaccato sulla fragilità degli adolescenti di oggi. Ragazzi nel pieno del loro potenziale, che però non riescono a conformarsi alle aspettative di una società disarmonica e aggressiva e per questo si disprezzano, si svalutano. Si tratta spesso di persone spiccatamente sensibili, empatiche. In un mondo ideale sarebbero valorizzate, indicate come esempi positivi. Ma nel nostro mondo, quello reale, si sentono oppresse, inadeguate. Si colpevolizzano, si investono di altissime aspettative, pretendono risultati immediati. Così come fa Salvatore: cerca un modo di compensare il senso di non appartenenza, deve dimostrare di essere uno studente perfetto, e non solo, deve potersi riscattare diventando famoso, subito! Preme sull’acceleratore dell’ego. L’urto contro la realtà é terribile e ha come conseguenza l’abbandono degli studi, la fuga da Alessandria.
Il ruolo dell’omosessualità nel quadro depressivo si esplicita solo verso la fine, emerge negli ultimi capitoli e si presta a un’interessante analisi nel dialogo in appendice con Paolo Crepet. Gli atti di bullismo a scuola, la discriminazione, a cui Salvatore si piega con un’arrendevolezza sconcertante. Il dramma dei genitori di fronte alla sua incapacità di reagire. E infine, eccola, la scrittura.
La scrittura di Salvatore Falzone è un atto spudorato, che nasce da un’urgenza. È una manovra salvifica, una luce nell’horror vacui. È il riscatto contro il bullismo, compensa l’incapacità di tirar cazzotti. È una scrittura, quella di Salvatore, spietata, violenta, che non risparmia nessuno, tantomeno se stesso. Niente trama studiata a tavolino, quindi, niente intreccio, niente colpi di scena. L’Arte di rialzarsi non sembra attingere alla dimensione delle idee, ma a una fonte più autentica, quella dell’essenza sottile, dell’anima.
L’uso della lingua è efficace, spontaneo, i dialoghi realistici. Il racconto procede per flash di immagini. Salta da un punto all’altro di una linea temporale difficile da ricomporre. Delinea, anche attraverso la forma scomposta, i tratti di una mente vorticosa e ingovernata.
Astenersi precursori del pensiero positivo sempre e comunque. Astenersi coloro che, nei riguardi di un conoscente depresso, si affrettano a snocciolare il solito rosario di commenti comuni: “distraiti – esci – e fattela ’na risata – e che t’è morto il gatto? – reagisci – tira fuori le palle” pretendendo di semplificare — o meglio ridicolizzare — una realtà ben più complessa e articolata.
Edizione esaminata e brevi note
Salvatore Falzone è nato ad Alessandria il 26 febbraio 1998. L’arte di rialzarsi, che ha cominciato a scrivere a diciotto anni, è il suo primo romanzo.
Salvatore Falzone, L’arte di rialzarsi, Marsilio, 2018.
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