David Charles Stove in gioventù ha professato idee marxiste e, come capita a molti ex, in età matura non soltanto ha rinnegato l’antico credo ma, quasi a voler sostituire fede a fede, è diventato un conservatore radicale, senza se e senza ma. Ce ne possiamo rendere conto nel leggere “Gli errori della benevolenza”, un agile e urticante pamphlet pubblicato per la prima volta nel 1989, proprio all’indomani della caduta del muro di Berlino. Con questa sua opera il filosofo australiano, nelle vesti di storico delle idee, come ha scritto molto bene Marco Filoni in prefazione, ha inteso “studiare e condannare il modo in cui un valore si trasforma in fine supremo presente nella visione di una società” (pp.10): in sostanza un invito all’esercizio della critica, anche se molte delle osservazioni di Stove potranno lasciare perplessi e risulteranno difficilmente condivisibili. Proprio recentemente un noto studioso di geopolitica, analizzando questi nostri anni condizionati da una globalizzazione fuori controllo e quindi da un feroce neoliberismo che ha soppiantato l’antico liberismo, ha scritto che il “mercato allevia e corregge [ndr: rectius “dovrebbe correggere”] i difetti e gli eccessi della democrazia come la democrazia allevia e corregge i difetti e gli eccessi del mercato”. Ecco, un ragionamento del genere Stove di sicuro non l’avrebbe contemplato. Il conservatorismo del filosofo australiano, come ancora scrive Andrew Irvine nell’introduzione, si sostanzia semmai nella certezza che il “fulcro del conservatorismo è non la mera opposizione ai cambiamenti, bensì l’idea che tutti siamo soggetti a tensioni interiori in conflitto tra loro, tensioni che possono essere mitigate, ma mai completamente risolte dalle strutture politiche e sociali in cui viviamo” (pp.30).
“Gli errori della benevolenza” diventa quindi una disamina impietosa di gran parte delle correnti di pensiero che hanno caratterizzato gli ultimi secoli di storia occidentale: “dall’Illuminismo al comunismo, dal darwinismo al postmodernismo”. In base alla premessa che “la benevolenza – se volta a ridurre la povertà e a equiparare la ricchezza – tenderà sempre più a diffondere la miseria (pp.97), e con l’occhio rivolto alle tesi malthusiane, Stove afferma, ad esempio, quanto “fosse falsa la diffusa opinione che l’Illuminismo favorisse l’istituto della proprietà privata. Al contrario il comunismo è una diretta conseguenza, e per di più duplice, dei principi illuministici” (pp.84). Al di là del suo intento provocatorio è una visione evidentemente molto pessimistica, diventata certezza quando ancora il peggio della globalizzazione – affondamento dei valori liberali del XX secolo, multinazionali fuori controllo, concentrazione della ricchezza in capo a pochissimi privilegiati e supply-side economics terremotata – non era di stretta attualità e che ha fatto scrivere di uno Stato sociale che tende naturalmente ad aumentare la povertà; “che il welfare continua ogni anno ad assorbire gran parte della ricchezza delle nostre nazioni e popolazione” e che, di conseguenza, “se lo Stato sociale è irreversibile, la prospettiva di smantellare il comunismo è ancora più remota” (pp.113). In altri termini, sempre secondo Stove, “i valori morali dell’Illuminismo hanno elevato la benevolenza alla principale virtù” e quindi “il comunismo è stato l’inevitabile conseguenza di questi valori” (pp.57). Tutte valutazioni che – ripetiamolo – devono molto a Malthus, interpretato però non come studioso gretto e senza cuore. Uno scienziato semmai nel quale “c’era anche una più profonda e più forte inclinazione morale, in metto contrasto con il suo utilitarismo. Non era certo Burke, né Tocqueville. Eppure intuiva, seppur vagamente, nella travolgente corsa alla felicità universale che stava contagiando l’Europa, il presagio di un nuovo e terribile mondo: un mondo in cui, attraverso i disperati tentativi di cancellare povertà e disuguaglianze, si sarebbe potuti arrivare ad abolire davvero la scienza e l’arte, la religione e la morale” (pp.77).
Un’opera quella di Stove che potremmo definire “figlia del suo tempo” e che, non a caso, riprende polemiche particolarmente sentite alla fine degli anni ’80. Pensiamo al capitolo in cui viene citata l’idea cristiana di “felicità sulla Terra”, secondo l’autore ormai del tutto distorta rispetto quanto affermato dai primi cristiani, proprio quelli che “ritenevano dipendesse, non da una dentiera offerta gratuitamente o da un prezzo stracciato del servizio sanitario nazionale, bensì da un misterioso processo di conversione, sempre e comunque interiore”. Da qui l’inciso sui “tantissimi sacerdoti che oggi ritengono che la felicità dell’uomo si possa ottenere con la guerriglia o a colpi di kalashnikov” (pp.48). Appare evidente l’allusione polemica, ed anche piuttosto artificiosa, nei confronti della cosiddetta “teologia della Liberazione”.
Da questo punto di vista, concordando con le osservazioni di Filoni, il lettore potrà davvero pensare a qualche somiglianza con “I pericoli della solidarietà” di Sergio Ricossa. Le argomentazioni dell’autore torinese erano però quelle tipiche di un economista ultraliberista, convertito negli anni ad un libertarismo conservatore, mentre quelle di Stove appaiono piuttosto quelle di un filosofo pessimista che invita innanzitutto ad essere diffidenti e a non cullarsi nel sogno che qualcuno possa risolvere i mali del mondo grazie ai suoi buoni propositi.
Edizione esaminata e brevi note
David Charles Stove, nato nel 1927 nella regione australiana del New South Wales, David Charles Stove iniziò la carriera accademica nel 1952. Avvicinatosi in gioventù alle idee marxiste, nel corso della sua vita le rinnegò attestandosi su posizioni conservatrici e, in polemica con le correnti filosofiche più in voga nel Novecento, si ritirò nel 1987 dalla facoltà di filosofia dell’Università di Sydney, dove insegnava. Morto nel 1994, le sue opere hanno conosciuto una nuova popolarità dopo essere state pubblicate negli Stati Uniti. Tra i suoi saggi, ricordiamo: “The Plato Cult and Other Philosophical Follies”, “Darwinian Fairytales”, “On Enlightenment”.
David Charles Stove, “Gli errori della benevolenza”, Carbonio Editore (collana “Zolle”), Milano 2017, pp. 160. Traduzione di Olimpia Ellero. Prefazione di Marco Filoni. Introduzione di Andrew Irvine.
Luca Menichetti. Lankenauta, luglio 2018
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