Definire soltanto “lettera” quanto scrisse Jean Tardieu al futuro premio Nobel Roger Martin du Gard può apparire un po’ ingeneroso. Dovremmo parlare semmai di diario, come fa notare Gérard Macé, ma seppure abbandonato e ripreso più volte, il testo nasce effettivamente come la lettera di un giovane poeta – Jean Tardieu – al suo “mentore”, conosciuto in occasione degli Décades de Pontigny. A fronte di un incipit che non nasconde affetto e deferenza, l’autore subito si immerge nel racconto della propria vita ad Hanoi. Il poeta era militare di stanza in estremo oriente e svolgeva il servizio di leva in una maniera un po’ particolare, ai limiti dell’imboscamento: era segretario dello Stato maggiore, poteva proseguire la propria attività poetica, frequentava teatri, “godeva della considerazione dei suoi capi” e alloggiava” nella villa del padre, il pittore Victor Tardieu, direttore dell’Ecole des beaux-arts”(pp.7). Il fatto di aver evitato le camerate, le trincee e i disagi dell’autentica vita militare evidentemente permisero al giovane Jean di scrivere una lettera-diario che unisce il piacere della bella scrittura con osservazioni, non tanto rivolte al tran tran ordinario della leva, quanto al mondo esterno, ovvero ai recenti ricordi della vita culturale in patria, alla cultura francese in terre lontane e alla natura indocinese. Potremmo dire un certo compiacimento estetico che si accompagna ad osservazioni sul paesaggio e sull’etnia di quel lontano paese.
L’opera da un lato può essere letta quindi come un esercizio di bello stile letterario ornato da gratificanti e, a volte, inquietanti e ingannevoli suggestioni orientalistiche, una sorta di narrativa di viaggio (anche se il militare Jean viaggiava poco e si limitava ad osservare l’ambiente esterno), ma, col senno di poi, analizzata soprattutto come racconto di un francese, di un appartenente alla classe dominante in un paese colonizzato. La società asiatica e la società europea agli occhi di Tardieu mantengono infatti una distanza sconcertante, in qualche modo estremizzata da una natura ipnotica e disorientante. Eppure è noto che il colonialismo francese – nel 1928 ancora solido nonostante da lì a poco le cose sarebbero precipitate con l’occupazione giapponese e poi con la guerra del 1954 – non si fondava sul dominio indiretto tipico britannico, ma sul principio dell’assimilazione. Leggiamo che “tutto quello che, agli occhi di un parigino non governante ma governato resta di fatto occulto, nascosto e misterioso, qui può essere letto apertamente come esposto su un tavolo operatorio. Le poche migliaia di francesi che amministrano il paese e i loro subalterni indigeni formano un tutto unico, una Francia in miniatura dove ogni organo figura in scala ridotta: vi è un governo con il suo capo, i suoi ministri, le sue circoscrizioni, Giustizia, Istruzione, Polizia, Guerra, Affari interni, Affari esteri, etc…esistono partiti, un giornale filogovernativo, uno di opposizione e, tra gli annamiti, qualche periodico rivoluzionario, poi la schiera disciplinata di funzionari e rappresentanti di ogni genere” (pp.80).
Un’assimilazione che rappresentava evidentemente qualcosa di formale, limitata appunto alla sfera statuale e a quelle “poche migliaia” di amministratori e subalterni indigeni. E’ ancora Jean Tardieu che nelle prime pagine della sua lettera-diario svela una realtà di irrisolte identità culturali e una “separatezza” che da lì a pochi anni si sarebbe manifestata in ben altri termini: “Quei francesi , che sono qui da autentici colonizzatori insediati da trenta o quarant’anni, non vogliono riconoscerlo: si tappano le orecchie, chiudono gli occhi e continuano a trattare questo popolo, straordinariamente fine e antico, come una ‘razza inferiore’ o stupidaggini simili”. Fino ad azzardare delle “prudenti generalizzazioni” ed osservare quanto siano distanti gli atteggiamenti tra dominatori e dominati: “Ma occorre avere un animo fiaccato, indurito – dal clima o dal rispettabile senso di una missione civilizzatrice cui adempiere – per non fiutare intorno a sé quest’atmosfera niente affatto ostile, peggio ancora: esattamente, assolutamente silenziosa, impersonale, come se l’avvicinarsi di un francese riuscisse a spegnere da cinquanta metri ogni bagliore di libertà, autenticità, sul viso di un autoctono […] la vera superiorità, quella fatta di cortese deferenza, di condiscendenza. Come non riconoscervi l’atteggiamento che opponiamo a un seccatore indisponente e chiacchierone: gli diamo subito ragione pur di liberarci in fretta della sua presenza” (pp.23). Anche le ultime parole di Jean Tardieu, colonizzatore suo malgrado, poco prima di congedarsi dal suo mentore, rappresentano bene un’incomunicabilità che non conosce “globalizzazione”, mediata semmai dalla sensibilità di poeta: “per quanto possibile non vanno mescolati questi due mondi tanto diversi: rattristerebbe l’anima come ogni prodotto ibrido e mal bilanciato” (pp.82).
Edizione esaminata e brevi note
Jean Tardieu, (St. Germain-de-Joux 1903 – Créteil 1995) poeta e drammaturgo francese. Esordì con “Il fiume nascosto” (Le fleuve caché, 1933). Scrisse le poesie migliori, dense e disadorne, durante la resistenza e nel dopoguerra (Poesie, Poèmes, 1944, nt; Giorni pietrificati, Jours pétrifiés, 1948, nt); poi, in parallelo alle esperienze di R. Queneau e J. Prévert, la sua poesia (Signor Signor, Monsieur Monsieur, 1951, nt) si è mossa tra ironia e divertissement stilistico. Per il teatro T. realizzò brevi atti unici che sviluppano la stessa vena già presente nelle poesie e svolgono con leggerezza i temi dell’«assurdo» in voga negli anni Cinquanta. Si ricordano “Un gesto per un altro” (Un geste pour un autre, 1951), “Lo sportello” (Le guichet, 1955), “La serratura2 (Le serrure, 1955). Si tratta di sketch, di scenette da cabaret, raccolti poi nel volume Teatro da camera (Théâtre de chambre, 1955). I testi successivi sono stati riuniti in “Poesie da recitare2 (Poèmes à jouer, 1960, nt) e in 2Una serata in Provenza, o la parola e il grido” (Une soirée en Provence ou le mot et le cri, 1975, nt). Del 1976 è la raccolta di versi “Formeries”.
Jean Tardieu, “Hanoi. Lettera a Roger Martin du Gard”, Lemma Press (Collana “Attese”), Bergamo 2018, pag. 96. Prefazione di Gérard Macé. A cura di Giacomo Turolla.
Luca Menichetti. Lankenauta, agosto 2018
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