Scrutando solo il titolo, “Storia di una serva” mi ha riportato istantaneamente alla mente il personaggio di Emerenc, la donna di servizio protagonista del meraviglioso romanzo “La porta” della scrittrice ungherese Magda Szabó. In realtà tra “Storia di una serva” e “La porta” non esistono somiglianze di alcun tipo. Il libro di Paula Fox, autrice newyorkese morta nel 2017 alla veneranda età di 94 anni, è una lunga e complessa opera narrativa, dai toni spesso amari e prostrati, narrata in prima persona dalla “serva” del titolo, Luisa. Sono quattro le parti in cui l’opera è organizzata e quattro le età e le fasi esistenziali della protagonista. “Storia di una serva” è stato pubblicato per la prima volta nel 1984, rivisto dalla Fox alcuni anni più tardi e dato alle stampe in Italia per la prima volta da Fazi nel 2008. Un’intera vita è contenuta in queste pagine, una vita normale per cui inquieta e sorprendente, oltre che spesso anche dolorosa e cocente.
Luisa Sanchez, o de la Cueva, nasce a Malagita, un villaggio dell’isola di San Pedro, nei Caraibi, nel 1926. Vive con sua madre e solo quando è capace di capire abbastanza, le viene spiegato che suo padre è il figlio della ricca signora di Malagita, la proprietaria di ogni terra e di ogni piantagione di canna da zucchero presente nella regione. Luisa si trova così fin da bambina a metà strada tra due identità: da una parte l’origine aristocratica ricevuta in eredità da una nonna, Beatriz de La Cueva, che l’ha rifiutata fin da subito, decisa a non dare alcuna rilevanza alla creatura nata dal rapporto di suo figlio e una sguattera che lavora nella “vivienda”; dall’altra l’origine umilissima e quasi desolata della famiglia di sua madre, poveri contadini al servizio dei de la Cueva da sempre. Eppure l’altra nonna, nonna Nana, la donna che ha deciso di rompere i rapporti con quella figlia sciagurata capace di farsi mettere incinta dal suo padrone, è per Luisa un punto fermo e una presenza costante. Luisa si allontana da sola per raggiungere Nana che la vorrebbe piegata a raccogliere canna da zucchero come tutti fin da piccola per evitarle “una vita più dura“, ma Luisa è comunque nipote della signora de la Cueva e non le è permesso comportarsi come tutti, anche se sua nonna e padrona non l’ha mai vista.
Luisa è una bimba vivace, caparbia, curiosa. Vaga libera tra i campi e non ha paura di nulla, tranne che dei maiali che razzolano in giro. Suo padre è una presenza intermittente e contraddittoria. Sua madre sgobba ogni giorno nella cucina dei padroni e si accontenta di quel poco che ha. Tutto muta quando Orlando de la Cueva, il padre di Luisa, intimorito dalle possibili rivoluzioni che sfiorano San Pedro, decide di portare Luisa e sua madre a New York, riuscendo così a sfuggire anche alla presenza di una madre troppo ingombrante e troppo dispotica. Gli Stati Uniti rappresentano anche al tempo, siamo a metà degli anni Trenta del Novecento, un approdo per molti, ma c’è la depressione e la vita di Luisa, di sua madre e di suo padre è durissima fin da subito. Vivono in uno squallido barrio e soffrono anche la fame. Luisa cresce e a scuola conosce Ellen, una ragazzina di colore che diventerà subito sua amica. Luisa ha fretta di allontanarsi dalla casa e dal degrado in cui vive e accetta l’unica occupazione che pare essere in grado di liberarla dal peso di un padre che detesta da sempre e di una madre che morirà in fretta. Luisa va a servizio in case di persone, per lo più borghesi americani, di cui, col tempo, impara a conoscere vizi, abitudini, timori, segreti e modi di vivere.
Nonostante i consigli e le pressioni di chi la conosce e la ama come Ellen, Luisa non vorrà mai mutare la sua vita. Rimane la “serva” che ha deciso di essere mentre Ellen studia e si migliora per diventare qualcuno e fare qualcosa di importante: “per Ellen distinguersi grazie a una professione era una questione di vita o di morte dello spirito – essere sconosciuti non era una rarità, ma finire nell’oblio come creature indegne di interesse era già di per sé una morte, innaturale perché avveniva nel corso della vita“. Ma Luisa è diversa da Ellen. La sua è una scelta compiuta forse in nome di quel “lasciarsi vivere” che le arriva come l’ennesimo rimprovero e che lei si lascia scivolare addosso come fa sempre. Non bastano né un marito, né un figlio, né un divorzio, né un amante a darle la forza di aspirare a un’esistenza diversa. Luisa porterà sempre dentro di sé i valori che Nana e l’infanzia di Malagita le hanno trasmesso. Nel suo sangue non c’è l’ambizione né l’individualismo che vede trionfare nei pensieri e negli atteggiamenti di ogni americano. La sua felicità è rimasta incastrata nei ricordi di quando, bambina, viveva a San Pedro: non può appartenere a nessun altro luogo, a nessun’altra vita. “Il lavoro che ogni giorno facevo e ogni giorno veniva disfatto era come il monotono, meccanico movimento di un pedale. Sognavo un’altra vita. Forse, pensavo, ero diventata il fantasma della piantagione, e la gente del villaggio, percorrendo le strade sterrate al crepuscolo e alzando lo sguardo al cielo che scuriva lentamente, sentiva la mia presenza e si rifugiava in casa con un brivido. Eppure, era la monotonia stessa della mia vita da domestica che mi permetteva di tornare, almeno con il pensiero, a Malagita“.
L’eroina di “Storia di una serva” è molto sui generis: non si realizza, non trionfa, non ambisce. Luisa vive un’esistenza che non ha scelto e che non le appartiene mai in maniera autentica ma, nonostante una perenne insoddisfazione, nonostante una costante atmosfera di disincanto e di mancato riscatto, rimane un personaggio dignitoso e consapevole, mai patetico e mai lacrimoso. Luisa non riesce a radicarsi nella città in cui suo padre ha voluto trapiantarla, si sentirà costantemente estranea e differente dalle persone che la circondano, avrebbe potuto vivere un’altra vita ma è un problema che non le serve a niente porsi. L’universo interiore di Luisa sembra essere l’opposto della sua esistenza poiché è sempre tumultuoso e complesso, ricco di sfumature e di ombre che lei sola sa di poter contenere. Il grande lavoro letterario della Fox risiede, infatti, nella creazione della tortuosa e incantevole coscienza della protagonista, nella sua naturale capacità di afferrare ogni minuzia e osservare ogni sottigliezza. Anche per questo nel romanzo c’è una sovrabbondanza di descrizioni capillari che ci vengono trasmesse sistematicamente attraverso il filtro sensoriale ed emotivo della protagonista. Sicuramente Paula Fox appartiene alla categoria delle grandi scrittrici statunitensi contemporanee, tanto che qualcuno l’ha messa allo stesso livello di John Updike, Philip Roth e Saul Bellow.
Edizione esaminata e brevi note
Paula Fox è nata a New York nel 1923. I suoi genitori erano entrambi sceneggiatori e sua madre aveva origini cubane e qualche problema psichico per questo, quando nacque Paula, fu affidata al reverendo Elwood Corning che la crebbe per i primi anni della sua vita e più tardi data in adozione. Paula si sposò la prima volta a soli 17 anni e divenne madre giovanissima e, come fece sua madre, decise di non tenere sua figlia e di darla in adozione. Negli anni successivi studiò presso la Columbia University e si sposò con il critico e traduttore Martin Greenberg. Paula Fox ha insegnato per alcuni anni e successivamente si è dedicata alla scrittura. Oltre a diversi romanzi, la Fox è autrice di una grande quantità di opere di narrativa per ragazzi. Durante la sua carriera letteraria ha ottenuto numerosi riconoscimenti. E’ morta a Brooklyn nel marzo del 2017 a 94 anni.
Paula Fox, “Storia di una serva“, Fazi Editore, Roma, 2008. Traduzione di Gioia Guerzoni. Titolo originale “A Servant’s Tale” (1984).
Pagine internet su Paula Fox: Wikipedia / Scheda Fazi Editore / The New York Review of Books
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