Dopo aver sentito numerosi amici e conoscenti parlare molto bene della Georgia, della sua gente, del cibo, delle chiese, dei paesaggi e dei prezzi bassi, insieme a Luca, un altro studente Erasmus italiano anche lui a Baku, abbiamo deciso di partire per trascorrere sei giorni in questo piccolo paese del Caucaso. Pur avendo una cospicua borsa di studio siamo pur sempre studenti e quindi per arrivarci optiamo per l’opzione più economica: un autobus notturno che parte da Baku e impiega dodici ore circa. La seconda alternativa sarebbe stata un treno notturno ma, oltre a costare più del doppio, è pure più lento. Luca fortunatamente parla russo e questo, come in altre occasioni, ci renderà la vita molto più facile. Sei giorni non sono sufficienti per visitare una nazione e tantomeno per giudicarla, tuttavia con questo racconto di viaggio vorrei riportare impressioni e opinioni su un luogo poco noto, ma che possiede un grande fascino ed una cultura antica. La Georgia fu uno dei primi paesi a convertirsi al cristianesimo, possiede una sua lingua ed un suo alfabeto che non assomigliano a nessun’altro in tutto il mondo, la sua cucina vanta delle specialità e dei piatti di indiscussa qualità, la sua storia è una continua oscillazione tra invasioni ed indipendenza e, nonostante oggi ci siano ancora problemi geopolitici legati alle due regioni separatiste dell’Abkhazia del nord e dell’Ossezia del Sud e nonostante la guerra con la Russia nel 2008, la Georgia è un paese sicuro, ospitale e che varrebbe la pena visitare anche partendo dall’Europa.
Tbilisi, Giovedì 5 marzo 2015 18.43
Mi incontro con Luca alla stazione della metropolitana di 20 Janvar verso le venti e trenta. Come al solito, appena usciamo dalla metro c’è il consueto nugolo di tassisti che ci aspetta e quasi ci assale al grido di: “Taxi, taxi, taxi”. Uno di loro addirittura mi trattiene per lo zaino mentre cerco di oltrepassarlo, allora mi giro di scatto e lo fulmino con lo sguardo, infastidito. L’uomo capisce di aver esagerato e desiste. Raggiungiamo il bordo strada da dove prendiamo l’autobus che porta alla stazione principale dei bus. Baku è una città moderna e che non ha nulla da invidiare ad altre città europee, tuttavia qua e là presenta alcune sviste madornali, ad esempio non c’è una fermata della metropolitana che arrivi direttamente presso la stazione degli autobus. Un altro esempio sono le casse automatiche sparse per tutta la città e da cui si possono comodamente pagare le bollette di gas, luce ed acqua. Un sistema rapido, semplice e pratico, peccato che nessuna di queste casse dia il resto e nemmeno accetti monete, ma solo banconote. Le bollette finiscono quindi sempre per venir arrotondate per eccesso. La stazione centrale degli autobus è piuttosto recente e grande, ma possiede quella particolare bruttezza e quel senso di tristezza che mettono tutte le strutture di questo genere. Saliamo subito sul mezzo che va a Tbilisi. Io ero pronto al peggio per quanto riguardava la qualità del nostro mezzo di trasporto e resto quindi piacevolmente stupito nel constatare che si tratta di un autobus non troppo datato, con sedili in buone condizioni e fortunatamente non troppo vicini l’uno con l’altro. Io e Luca non abbiamo i posti vicini e comincio quindi a sperare che il posto di fianco al mio resti vuoto.
Il bus parte qualche minuto dopo le ventuno e trenta, per motivi che non riesco a spiegarmi si ferma dopo pochi metri e resta là dieci minuti, la stessa cosa si ripete altre tre volte finché non ci troviamo subito fuori dalla stazione, a quel punto salgono a bordo altre persone e finalmente partiamo sul serio. Il mio vicino è un azero alto solo un metro e sessanta e quindi c’è più spazio per le mie ingombranti gambe, a Luca invece è andata peggio e ha di fianco un energumeno di un metro e novanta, che porta una felpa blu con la scritta “Wrestling Team Azerbaigian”. Fa evidentemente parte della nazionale di lotta libera, uno sport molto popolare da queste parti. L’autobus è pure dotato di un router per il wi-fi e di una televisione, su cui sta passando il dvd di uno spettacolo comico azero. Il volume è piuttosto alto e l’idea che la cosa possa andare avanti per tutto il viaggio comincia a spaventarmi. Tuttavia ho modo di osservare quarantacinque minuti di sketch comici azeri, in particolare rimango colpito da uno, di cui colgo le scene pur senza capire una parola: un tizio porta la sua giovane e bella ragazza a casa di sua madre, la quale non approva la scelta e cerca di fargli cambiare idea, presentandogli un’altra ragazza assolutamente orrenda e con la stessa femminilità e lo stesso fascino di una tazzina di tè. Sia la parte della madre che quella della seconda ragazza sono recitate da due uomini travestiti, l’unica donna in scena è la prima ragazza, la quale però non dice una parola e non è nemmeno dotata di un microfono. La stessa cosa si ripete pure negli altri sketch che vedo prima di cedere e di mettermi ad ascoltare un po’ di musica dal mio i-pod. Dopo un paio di ore ci fermiamo per la prima sosta. Voglio approfittare dell’occasione per sgranchirmi le gambe e quindi scendo. Ci troviamo ancora in quella zona semi-desertica che si estende tutt’intorno a Baku. Quando ripartiamo tento di dormire un po’, ma dopo poco mi accorgo che il bus si ferma nuovamente, capisco allora che queste pause così frequenti servono agli uomini per fumarsi una sigaretta. Le poche donne presenti non scendono nemmeno: in Azerbaigian è considerato poco per bene per una donna fumare in pubblico. In stato di semi-coscienza, so solo che le ore passano abbastanza velocemente tra un tentativo di trovare un posizione comoda e una pausa dell’autobus e verso le cinque e mezza arriviamo al confine. Questo particolare passaggio è chiamato Ponte Rosso per la presenza appunto di un vecchio ponte sopra al fiume Khrami, che passa da qui.
Oggi il ponte si trova nella terra di nessuno e non è più utilizzato. Sia per me che per Luca è la prima volta che valichiamo un confine terrestre tra due paesi extra-europei. Noi ormai non ci siamo abituati grazie ai vantaggi dell’area Shengen e ai facili confini aeroportuali che ci sono in tutto il mondo, tuttavia attraversare una frontiera via terra è in verità un momento non privo di una sua solennità . Ci fanno scendere dall’autobus, che dovrà essere ispezionato dalla polizia. Seguendo gli altri passeggeri c’incamminiamo lungo una specie di corridoio chiuso che porta ad un cancello, il quale a sua volta immette nell’edificio della guardia doganale. Qui aspettiamo per almeno una mezz’ora prima che un poliziotto giovanissimo venga ad aprirci. Dopo pochi metri arriviamo all’interno dell’edificio, dove una piccola fila di persone aspetta di farsi controllare il passaporto davanti a due gabbiotti della polizia. Quando arriva il mio turno la guardia sembra molto sorpresa di vedere un italiano, mi chiede cosa vado a fare in Georgia e cosa faccio in Azerbaigian, ma ho l’impressione che lo domandi più per curiosità personale che per altro. Mi appone il timbro di uscita sul passaporto e posso andare. Dopo questo controllo bisogna superare alcuni controlli in tutto simili a quelli degli aeroporti e infine attraversare la desolata “terra di nessuno”, quella zona grigia che sempre esiste tra due stati. Un’identica procedura si ripete al confine georgiano, con la differenza che l’edificio sembra essere più moderno, con uno stile meno sovietico e che al controllo passaporti ci sono due donne. Le due guardie di frontiera non ci fanno quasi nessuna domanda e ci appongono un bel timbro verde brillante nel passaporto. Usciti dall’edificio è già l’alba, aspettiamo l’autobus per una buona mezz’ora e poi ripartiamo. Ci sono volute due ore per passare il confine e non c’era quasi nessuno a quest’ora: non oso immaginare quanto questo procedimento possa essere lungo quando c’è traffico. Il primo paesaggio georgiano che vediamo è una verde pianura con poche case sparse qua e là, lentamente diventa meno regolare e si punteggia di piacevoli colline verdi dalle linee eleganti, che invitano a una passeggiata. Sento di avere sonno, ma non provo nemmeno ad addormentarmi, anche perché siamo ormai quasi arrivati. Verso le otto l’autobus ci lascia alla sua stazione nella periferia di Tbilisi. Il giorno prima abbiamo prenotato un ostello e sappiamo che si trova nel centro città, chiediamo a qualche passante e troviamo così una fermata dell’autobus: quello che ci porta verso il centro è poco più grande di un minivan ed incredibilmente affollato. Nel prenderlo incontriamo una delle prime difficoltà che un turista ha in Georgia: l’alfabeto. La lingua georgiana è una lingua unica nel suo genere e sebbene abbia subito influenze dai gruppi linguistici vicini, sembra non avere parentele dirette con altre lingue esistenti. Il suo alfabeto è composto da 33 lettere e non assomiglia a nessun altro al mondo.
Ad un povero straniero quelle lettere sembrano solo un gran susseguirsi di eleganti linee curve simili a tanti spaghetti. Fa impressione pensare che la Georgia, e il Caucaso in generale sia una regione dove l’alfabeto cambia in quasi ognuno degli stati che la compongono. L’unico alfabeto comune è quello latino, usato in Turchia e in Azerbaigian, ma Georgia, Armenia, Russia e Iran hanno tutti un alfabeto diverso. Ad ogni modo a Tbilisi e nelle principali località turistiche, cartelli ed insegne sono spesso scritti in georgiano e in inglese, tuttavia può capitare di trovare autobus o altri mezzi con scritte solo in georgiano. Con l’autobus in dieci minuti arriviamo in una delle piazze principali, di fianco al fiume che attraversa Tbilisi, il Kura. Già da qui vediamo alcune delle principali attrazioni della città, ma per ora c’interessa trovare il nostro ostello. Con l’ausilio delle nostre guide turistiche riusciamo ad arrivare a Freedom Square, la piazza più grande della città, da là in altri dieci minuti troviamo l’ostello: si chiama Why Not e gode di buona fama.
Dall’esterno ha l’affascinante aspetto di una vecchia casa non troppo stabile, saliamo le scale ed entriamo nell’anticamera dove c’è un grande posa scarpe. Da qui si accede nella sala comune, dove ci accoglie una ragazza di venticinque anni dai capelli rosso scuro. La sala comune è dotata di un paio di divani e di un grande tavolo dove ora un gruppo di dieci cechi poco socievoli sta facendo colazione. Il check-out qui di regola è alle undici e quindi noi non possiamo ancora entrare in camera, ma poco importa, ci sediamo qualche minuto sui divani per riposarci e poi usciamo per fare colazione ed esplorare la città, non senza aver coccolato i due bellissimi gatti che appartengono all’ostello e che scorrazzano per la sala comune.
Francesco Ricapito, giugno 2015
Follow Us