Finizio Valerio

Il morbo del terrore

Pubblicato il: 27 Settembre 2018

Il riconoscimento del valore di un’opera letteraria a partire dai suoi referenti illustri (resi più o meno espliciti dall’autore) è innegabilmente un dovere del lettore.

Se questa, però, fosse l’unica condizione di partenza, il confine tra ‘ispirazione’ e ‘plagio’ si farebbe molto sottile, giacché la «riproducibilità tecnica di un’opera d’arte» (Walter Benjamin) risulterebbe imprescindibile dal tempo presente: dal momento che tutto è già stato detto, fatto o tracciato, potrebbe apparire piuttosto arduo scremare l’unicità di un prodotto creativo dalla necessità quasi vitale di questo di impiantarsi sulla solidità di certi «rizomi» (Giles Deleuze) radicati a terra, proprio come bulbi.

Ci sono, tuttavia, testi in cui l’intersezione con altri testi (la loro intertestualità, appunto) è talmente godibile da far passare il lettore sopra qualunque deontologia selettiva tra ciò che è, nei limiti del possibile, innovativo e ciò che, invece, è stato acquisito e viene riproposto sotto mentite spoglie.

Il romanzo d’esordio di Valerio Finizio, Il morbo del terrore (Nulla Die Edizioni, 2018), fa capo a questa seconda categoria di testi: quella in cui l’autore butta là, tra le righe, qualche calco intenzionale, facendolo precedere da rapide epigrafi, a suggerire un percorso di lettura e di auto-svelamento del romanzo stesso. Si potrebbe ipotizzare che nel tessuto, apparentemente pretestuoso, di una storia quasi grottesca, si celino delle piccole sfide, quasi dei trabocchetti che sono, in termini letterari, gli stessi che tentano di affrontare fattivamente i personaggi del libro. Alcuni di questi personaggi, però, sono del tutto marginali, ridotti fin dall’inizio a figure di contorno, anche decisamente antipatiche e funzionali soltanto ad aspetti diegetici, narrativi. E, difatti, non ne sentiremo la mancanza quando decideranno di eclissarsi, spinti da motivazioni egoistiche e privi del tutto, fin da subito, della facoltà di sacrificare la propria specificità per un bene collettivo.

I protagonisti reali (quelli scollati dalle sbiadite figure di passaggio), perciò, sono quattro, come effettivamente risulta dalla quarta di copertina, ma coincidono solo parzialmente con quelli in essa elencati (primo trabocchetto!).

La perlustrazione di Poveglia (isola della laguna veneziana) da parte del gruppo formatosi per soddisfare, ognuno in funzione delle proprie mire o ragioni, le ambizioni imprenditoriali di Rodrigo Leone (già proprietario della dislocata catena Globe Restaurants) è l’occasione dalla quale si dipanano i cunicoli narrativi e topografici del romanzo. Ciò presuppone la capacità del lettore di penetrare una certa complessità degli spazi e dei loro collegamenti (stanze in riesumazione da un polveroso passato e comprensione degli scopi per i quali erano asservite), al punto da rendere quasi indispensabile il supporto di una mappa, che lo stesso lettore potrebbe divertirsi a tratteggiare per districarsi dagli ambienti e dalle impalpabili presenze che ancora li abitano.

È decisamente interessante apprendere, da una comune ricerca in rete, come Poveglia ─ adibita nei secoli a «stazione di quarantena», avendo ospitato in più occasioni equipaggi carichi di appestati nel Settecento e, quasi due secoli dopo, a casa di riposo per anziani (ma, più plausibilmente, clinica psichiatrica) ─ rappresenti ancora oggi meta prediletta da amanti del noir, parapsicologi e studiosi di psichiatria, per l’esalazione di contagiose suggestioni che essa emana dal suo seno e nondimeno per la sua impraticabilità: fisicamente ostile, in quanto gremita di ruderi, offre altresì barriere burocratiche per poter essere visitata. Insormontabili quasi quanto quelle geografiche.

Che, poi, proprio un’isola veneziana svolgesse la funzione di ospizio per malattie epidemiche, non è stupefacente, stando a una delle più accreditate ipotesi sull’origine etimologica della parola «lazzaretto», che individua in essa l’esito «generativo-trasformazionale» di Santa Maria di Nazareth, isola lagunare anticamente adibita, appunto, a lebbrosario.

Tornando all’attacco di questa recensione senza pretese esaustive ─ sarebbe impossibile, data la quantità di input cui è esposto (o da cui è bombardato, sotto forma di sfida intellettuale), provocatoriamente, il lettore ─ se ne può citare giusto qualcuno, di quei rizomi, di certo non tutti germinati in superficie per l’Autore né identicamente coltivati da colei che qui scrive.

A cominciare dalla assimilazione simbolica, o metaforica, dell’isola intesa come condizione psichica col suo correlativo territoriale, si potrebbe tentare di abbozzare un elenco sommario di opere romanzesche dove, già a partire dai titoli, questa assimilazione risulti saliente.

La prima di queste opere, non in ordine cronologico di uscita ma per la quantità di analogie tematiche, è senz’altro L’isola della paura, romanzo del 2003 dello scrittore statunitense Dennis Lehane, dove, come qui, sfilano in un inestricabile groviglio argomentativo: l’istituto psichiatrico, la lobotomia applicata sui pazienti, la seconda guerra mondiale, la fortezza abbandonata.

A essa, potremmo associare, poi, l’Isola con fantasmi (1993) di John Banville, scrittore irlandese; e, ancora, per gli esperimenti medici e andando indietro di circa un secolo, L’isola del Dottor Moreau (1897) di H.G. Wells, scrittore britannico, noto come uno dei capostipiti del genere fantascientifico; per proseguire con il telegrafo elettrico (nel Morbo del terrore, trasposto in «Magnetophon») e con la malaria de L’isola misteriosa (1875) di Jules Verne; riferimento, in questo caso, molto poco misterioso, in quanto imbeccato dallo stesso Finizio, con l’epigrafe di p. 157, dal Viaggio al centro della terra (1864):

«Ma finché il cuore batte, finché i polmoni respirano, io non permetto che uomini dotati di volontà si abbandonino alla disperazione!»

e prima:

«Virgilio stringeva tra le mani una copia di Viaggio al centro della terra» (p. 18)

«“Ho letto tutti i libri di Verne almeno un paio di volte”, aggiunse Virgilio, divertito» (p. 56).

Concludendo la carrellata e trasferendoci dall’ambientazione alla scelta, certamente non accidentale, dei nomi dei personaggi, non si può tralasciare l’inossidabile Romanzo di Alessandro Manzoni (per la peste, ma anche per Don Rodrigo); o, forzando fino al parossismo la volontà non dimostrabile dell’Autore, l’Inferno di Dante (per la discesa agli Inferi e per la presenza del «traghettatore» Virgilio):

«La barca solcava le acque lagunari, diretta verso quel lembo di terra che nonostante il sole pareva avvolto in un’atmosfera grigia di minaccia, come fosse un piccolo globo indipendente e popolato da cupi abitanti» (p. 25).

Come si diceva, ci sono due modalità di interpretazione della citazione letteraria: quella prodotta dalla mancanza di idee originali (e lì, c’è ben poco da interpretare: la ricezione si appiattisce, in quel caso, a un livello talmente basso da non lasciare margini esegetici) e quella germinata, invece, proprio come un rizoma in botanica, dalla collaborazione stretta tra Autore e Lettore. Queste due figure si ammiccano sempre vicendevolmente e tacitamente attraverso la pagina scritta e senza conoscersi di persona, ma avendo instaurato da subito una dialettica ogni volta mutevole e irripetibile (essendo il Lettore sempre diverso) e, soprattutto, in continua trasformazione.

Cosicché ─ usando una perifrasi dell’accademico tedesco Wolfgang Iser, teorico della fondamentale «estetica della ricezione» in letteratura (ma anche in cinematografia) ─ «l’opera è il costituirsi del testo nella coscienza del lettore»[1]. L’assunto di questa collaborazione si radica, dunque, «in questa dialettica tra mostrare e non dire. Il non detto rappresenta lo stimolo dell’atto costitutivo; allo stesso tempo, però, questo impulso produttivo è controllato dal detto, che per parte sua subisce necessariamente un mutamento, allorché viene alla luce ciò a cui alludeva»[2].

Ciò a cui alludeva… stando alle brevi note biografiche della quarta, ci spingiamo ancora oltre nel processo di familiarizzazione con l’Autore, azzardando un’allusione empatica (almeno a sprazzi) col personaggio Oscar:

«Non approvano del tutto le mie scelte. La mia volontà di buttarmi nel giornalismo e nella letteratura li ha un po’ contrariati. Volevano che mi dessi all’informatica: secondo loro è un settore più sicuro, al giorno d’oggi» (p. 120).

E, perché no, anche una evidentemente morbosa (!) cinefilia, inglobante tutti i generi e disseminata, ancora, di raffinate allusioni letterarie (la psicosi dei clown è già riproposizione da Stephen King in Incubi di morte[3] di Sharon Bolton):

«Il clown interpretato da Tim Curry aveva terrorizzato una generazione di giovani, compreso lui…» (p. 162)

di demenziali parodie:

«“Un Jurassic Pork”, disse Virgilio, lasciandosi andare a una risatina» (p. 20)

dei «biscotti» su cui cammina Short di Indiana Jones e il tempio maledetto (1984):

«come se fosse atterrato su un pavimento rivestito di cracker» (p. 61)

dell’hitchcockiano La donna che visse due volte (1958):

«Il dottor Sarles si era gettato dal campanile» (p. 170)

e dell’Arancia meccanica (1971) di Stanley Kubrick (a sua volta, dal libro di Anthony Burgess del 1962):

«Il corpo di Oscar era completamente immobilizzato e le palpebre gli erano tenute aperte da un paio di asticelle di metallo, che si estendevano da una specie di corona che gli circondava la fronte» (p. 184).

Un romanzo sofisticato, questo di Valerio Finizio, nella seconda delle due accezioni tra loro complementari ma opposte: non adulterato o contraffatto, bensì ricercato ed elegantemente affilato.

Come il becco ricurvo di una maschera veneziana.

[1] Wolfgang Iser, Il processo della lettura. Una prospettiva fenomenologica, in Gumbrecht, Iser, Jauss, Naumann, Stempel, Stierle, Weimann, Weinrich, Teoria della ricezione, a cura di Robert C. Holub, Torino, Einaudi, 1989, p. 44.

[2] Iser cit., p. 45.

[3] Sharon Bolton, Incubi di morte, Milano, Mondadori, 2013.

Edizione esaminata e brevi note

Valerio Finizio nasce a Napoli nel 1991. Programmatore informatico di professione, dal dicembre 2014 collabora come recensore per il portale letterario www.qlibri.it. Il morbo del terrore è il suo romanzo d’esordio. Il morbo del terrore è risultato vincitore della Prima Edizione del ‘Premio del mare Marcello Guarnaccia’ (Primo classificato).

www.valeriofinizio.it

Valerio Finizio, Il morbo del terrore, Piazza Armerina, Nulla Die Edizioni, 2018 Euro 18,00