A quattro anni di distanza dal quel tragico agosto 2014 in cui si compì il genocidio degli Yazidi, non sono molte le pubblicazioni che possiamo trovare sugli scaffali italiani per capire cosa accadde in quei giorni e qual è lo strascico ominoso che ancora tormenta questa piccola popolazione di lingua curda e di religione yazida. Ci aiutano l’ottimo Il genocidio degli Yazidi (Guerini e Associati) di Simone Zoppellaro o la traduzione della testimonianza di Nadia Murad, divenuta simbolo e ambasciatrice nel mondo del destino infame toccato alle giovani donne di questo popolo: L’Ultima Ragazza (Mondadori).
Nel giugno del 2018 è arrivato a dar man forte sugli scaffali questo prezioso volumetto pubblicato da Nutrimenti e scritto dalla poetessa irachena Dunya Mikhail, già vincitrice del premio per la libertà di scrittura delle Nazioni Unite nel 2001 e tradotta in italiano da Elena Chiti nel 2001. Le regine rubate del Sinjar. Il Sinjar è quella brulla e isolata montagna che nel mezzo del deserto siro-iracheno va da est-verso ovest. È la patria storica del popolo yazida, sebbene questo popolo sia diffuso anche in altre regioni irachene, come per esempio nella limitrofa provincia curda di Duhok, dove si trova il santuario religioso di questo popolo, Lalish. Le regine rubate invece sono le centinaia di donne rapite dagli aguzzini dell’autoproclamatosi Stato Islamico, l’organizzazione islamista che dal giugno 2014 fino almeno all’ottobre 2017 (liberazione di Raqqa) ha dominato su vasti territori della Siria e dell’Iraq in nome di un oscurantismo violento e apocalittico. Il Sinjar e le giovani donne che lo abitavano, furono fra le prime vittime di questa organizzazione fatta anche di sbandati, mercenari, e visionari nichilisti islamici provenienti da tutto il mondo. Pur avendo seminato dolore e morte per molte popolazioni di quei territori, forse per nessuno come per gli yazidi, la violenza dello Stato Islamico ha significato una cesura storica irrimediabile, il rinnovarsi –con inaudito vigore e inusitata ferocia – della storica dispersione delle genti che da sempre martorizza questa piccola popolazione. Nel Sinjar, lo Stato Islamico uccise migliaia di uomini, giovani e vecchi, e rapì altrettante migliaia di giovani donne e madri, per usarle in un disumano commercio del sesso e della dominazione maschile, giustificati dalle aberrazioni teologiche che sostenevano le loro azioni.
Questo libro racconta la storia di qualcuno che laboriosamente cerca di strappare giorno dopo giorno una regina delle grinfie dell’inferno. Racconta la storia di Abdullah, uno che prima dell’avvento dello Stato Islamico, anche chiamato DAESH, commerciava il suo miele fra Siria e Iraq, e che oggi si ritrova a battere le stesse strade per cercare di salvare le donne del suo popolo rapite dal DAESH (probabilmente rende meglio l’idea della centralità di questo personaggio la scelta del titolo nell’edizione inglese: The beekeeper of Sinjar). Attraverso le angosciose telefonate fra l’autrice e Abdullah, questo libro ricostruisce storie femminili individuali la cui carica di dolore e di sofferenza è tale da meritare di non essere menzionata qui, ma di essere trattata con la delicatezza e l’empatia poetica di Dunya Mikhail. È un reportage costruito in remoto, ma è anche una testimonianza poetica di un ennesimo dolore ingiustificabile e incolmabile che va ad aggiungersi agli altri innumerevoli patiti da quelle terre; terre da cui l’autrice fu costretta a fuggire già nel 1990. La sofferenza delle giovani donne yazide è echeggiata in sottofondo dalla nostalgia dell’autrice per il suo paese d’origine.
È un libro duro, per stomaci e cuori forti. Ma meritano un po’ di coraggio, da parte di noi lettori, le donne protagoniste di queste atroci vicende. Meritano che la loro testimonianza affidata alla penna di una poetessa venga da noi raccolta; meritano che quel dolore, anche se per un attimo, ci attraversi e ci scuota.
Edizione esaminata e brevi note
Dunya Mikhail è una poetessa e giornalista irachena nata nel 1965 e residente negli Stati Uniti dal 1990, dove fuggì a seguito delle pressioni del governo di Saddam Hussein. Scrive in arabo, inglese e assiro. In italiano è stato tradotto, sempre da Elena Chiti La guerra lavora duro (2011). Nel 2001 Dunya Mikhail ha ricevuto il premio Nazioni Unite per i Diritti Umani per la Libertà di Scrittura.
Dunya Mikhail, Le Regine Rubate del Sinjar, Nutrimenti, Roma 2018. Traduzione dall’arabo di Elena Chiti. 230 pp, € 16
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