Questo romanzo mi è stato presentato come “il libro più letto nella Repubblica di Moldavia negli ultimi cinquant’anni” e allo stesso tempo come “un classico della letteratura romena”. Conoscere quali sono le opere letterarie alla base di una cultura popolare è sempre interessante e permette d’imparare molto sulla sua storia passata e presente ed ecco perché ho accettato di leggerlo senza praticamente sapere nulla della trama.
La storia comincia dal punto di vista di un bambino: racconta della sua vita in un orfanotrofio siberiano in un periodo compreso tra gli anni ’40 e ‘50. Lui e qualche altra centinaia di suoi compagni sono figli degli internati nei campi di lavoro, vengono chiamati “figli di Stalin”, sottratti alle madri al compimento del secondo anno e poi educati secondo i principi dello stalinismo fino alla maggiore età. Un giorno però Mircea, questo il suo nome, viene prelevato da un uomo che dice di essere suo padre.
A questo punto la storia fa un salto temporale e geografico: giugno 1940, villaggio romeno di Poiana, un giorno come gli altri arriva una colonna di carri armati da cui dei soldati sovietici annunciano la liberazione del popolo, poche ore e gli stessi soldati cominciano ad arrestare centinaia di persone anche solo sospettate di non aderire alle nuove idee.
Tra queste c’è il venticinquenne Mihai Ulmu, professore di letteratura nella scuola superiore del villaggio alla fine del suo primo anno d’insegnamento, amato dai suoi allievi e rispettato dalla comunità. Mihai viene imprigionato, interrogato, processato, condannato e spedito in un campo di lavoro in Siberia. Quello che non sa è che tra le sue studentesse ce n’è una che ha deciso di amarlo, il suo nome è Maria Razesu e spinta da questo potentissimo sentimento parte per la Siberia con il solo scopo di ritrovare Mihai.
Senza voler svelare troppi dettagli della trama, i due amanti vivranno alterne fortune ma dalla loro unione nascerà appunto Mircea, il quale non conoscerà il padre fino a quando questo non sarà liberato dopo la morte di Stalin insieme a tutti i suoi compagni di prigionia e andrà appunto a cercarlo.
Il libro è diviso in molti capitoli di breve lunghezza, ognuno preceduto da una citazione. La narrazione è in terza persona ad eccezione delle prime pagine dove e parlare è il figlio Mircea e si sposta da Mihai a Maria, nel primo caso raccontandoci la vita nel lager e nel secondo invece il lungo viaggio verso la Siberia e la pianificazione dell’evasione.
La lettura risulta scorrevole e la trama sa essere avvolgente, molto apprezzabili sono i paragrafi in cui i protagonisti si scontrano con le autorità sovietiche come agenti, ufficiali, guardie, direttori del carcere, l’autore Nicolae Dabija riesce infatti a creare una palpabile atmosfera di assurdo e d’insensatezza latente che non deve essere poi così lontana dalla verità. Magistrale in questo senso è la figura della direttrice del carcere femminile che alla fine si confessa in tutta la sua umana debolezza proprio con Mihai, “lei oggi mi ha ricordato che anche io sono un essere umano, una “signora”, come mi ha detto, e non una macchina”. Si avverte insomma quell’idea generale dello stato sovietico come di una grande macchina governata sempre da qualcun altro e dove obbedire secondo la famosa espressione “perinde ac cadaver” è il solo modo di sopravvivere.
Meno scorrevoli da leggere sono le pagine dedicate ai sentimenti dei due giovani innamorati, paragrafi molto romantici ma che forse avrebbero potuto essere più coincisi. Nota negativa anche i numerosi refusi presenti soprattutto nella prima metà del libro.
Nota molto positiva invece è l’abilità dell’autore nella caratterizzazione dei personaggi rinchiusi con Mihai nel lager: criminali di vario tipo, uomini colti, un prete, l’ultimo conoscitore della lingua ugrica, l’originale idioma siberiano, tutti questi hanno almeno un capitolo a loro dedicato e le loro storie sono inserite sapientemente come brevi racconti all’interno del romanzo.
Drammaticamente toccante è la scena finale in cui Mihai torna nella sua vecchia scuola e trova la sua classe ad aspettarlo con l’ultimo compito da lui assegnato prima di essere arrestato: “vivere da uomo è un’arte oppure un destino?” Come tanti anni prima, Mihai scorre attraverso il vecchio registro ed ognuno dei vecchi studenti racconta brevemente la sua vita, quasi rispondendo con i fatti a quella domanda.
Questo libro ci regala una bella storia, ambientata in un periodo storico complesso e ci dà una testimonianza abbastanza credibile su come doveva essere la vita in un campo di prigionia siberiano. Lo consiglio agli appassionati di storia del ‘900 e a tutti coloro che vogliono scoprire una delle opere più importanti della letteratura romena.
Edizione esaminata e brevi note
Nicolae Dabija (1948), poeta, scrittore e giornalista, è membro onorario dell’Accademia Romena e corrispondente dell’Accademia Moldava delle Scienze. Il suo primo volume di poesie Il terzo occhio (1975) assunse un valore simbolico per la generazione dei poeti moldavi di quegli anni, inducendo la critica letteraria a coniare l’espressione Generazione del Terzo Occhio per definire il movimento letterario che ne scaturì.
Nicolae Dabija, “Compito per domani”, traduzione di Olga Irimciuc, Graphe.it Edizioni, Perugia, 2018.
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