Coe Jonathan

La famiglia Winshaw

Pubblicato il: 3 Settembre 2006

“Conoscetemi” disse e fu dimenticato.  “Voletemi bene”: ma dell’amore abbiamo paura.  Preferiremmo volare sulla luna piuttosto che dire le parole giuste quand’è tempo di dirle. LOUIS PHILIPPE, Yuri Gagarin

Chi è Michael Owen? I più penseranno al famoso attaccante della nazionale inglese di calcio, pallone d’oro nel 2001, ma non è di lui che stiamo parlando. Un nome, una predestinazione. Sì, perché quando La famiglia Winshaw fu dato alle stampe, nessuno poteva immaginare che l’io narrante di questo memorabile romanzo di Jonathan Coe avrebbe portato l’identico nome di un futuro pallone d’oro. E questo per sgombrare il campo su una possibile ispirazione calcistica dell’autore in questione. Ma c’è qualcosa di più che non accomunerebbe i due Owen, se il destino non c’avesse messo lo zampino: uno dei due avrebbe potuto avere un cognome diverso. Avrebbe dovuto avere un cognome diverso.

Destino. In molti si sono affannati, cercando di trovare la definizione giusta per inquadrare il genere letterario entro cui si è mosso Coe nel dar vita a uno dei suoi romanzi più amati e celebrati: saga, documentario, thriller – sì, c’è anche il thriller – romanzo storico, d’attualità e di politica. E memoria, molto è affidato alla memoria e al ricordo, alla evocazione e rievocazione di cinquant’anni di costume, cronaca e vita politica dell’impero britannico, filtrati dal ricordo dell’io narrante: Michael Owen, per l’appunto. Su tutto, comunque – non solo su un nome -, inequivocabilmente, domina il destino.

Le vicende che Owen narra prendono avvio durante la seconda guerra mondiale, allorché Godfrey Winshaw, brillante pilota dell’aviazione britannica, viene abbattuto da una contraerea tedesca. Come è possibile che una missione tanto segreta ed importante fosse stata così facilmente smascherata? Tabitha Winshaw, sorella prediletta dell’aviatore ucciso, sospetta sia stato il fratello Lawrence a tradire il suo stesso sangue. Perché? Distrutta dal dolore, e uscita fuori di testa, Tabitha, con l’assenso di tutti i familiari, viene rinchiusa in manicomio. Ma è veramente pazza, o la si vuole ridurre al silenzio? Siamo nel 1942, e da qui in poi il destino della famiglia Winshaw incrocerà inevitabilmente quello di Michael Owen, nonché dei tanti personaggi i quali, a vario titolo, entreranno a far parte della storia (Coe, nelle note conclusive, cita Calvino, la cui lezione sull’intreccio di scenari ed esistenze sembra aver interiorizzato). Storia narrata dallo stesso Owen, che si troverà, apparentemente per puro caso, all’ingresso degli anni ottanta, a scrivere un libro-cronistoria degli eventi che hanno portato i vari membri della famiglia nei posti di potere dell’ Inghilterra tatcheriana. Gli Winshaw rappresentano quanto di peggio esprime il volto inquietante e mimetico del potere. In tutti i settori: nell’economia, nella finanza, nell’editoria, nel giornalismo, nella politica, nell’industria della guerra. Il testo, commissionato dalla “sorella matta” a un giovane scrittore squattrinato, pur di talento e di fuggevole fama, non dovrebbe essere, nell’intenzione di Tabitha, un elogio dei successi familiari quanto un resoconto del come – attraverso soprusi ed inganni – impunemente siano stati ottenuti. Owen, un fallimentare matrimonio precoce alle spalle, si presta perché bisognoso di soldi e perché in crisi d’ispirazione dopo due promettenti romanzi di scarso successo economico finiti troppo in fretta nell’oblio editoriale.

È qui che entra in gioco il destino. Un destino amaro quello di Michael Owen, che è assolutamente inconsapevole dei segni che fino ad allora il fato gli aveva finviato; che proprio al principio dell’ultima decade del millennio si ritrova solo, lontano dal mondo e pieno di fantasmi senza nome a cui dare un volto. Il giorno in cui Fiona, vicina di casa a lui quasi sconosciuta, bussa alla sua porta e lo costringe a ridestarsi da un torpore accumulato per anni, i tasselli che la vita aveva sparso in giro cominceranno magicamente – in modo doloroso e spettrale – a ricomporsi. Per lui sarà un sorta di epifania: una epifania che porterà con sé follia e morte.

Romanzo splendido, indiscusso capolavoro di fine millennio, La Famiglia Winshaw è decisamente l’opera migliore – unitamente a La banda dei brocchi, a parere di chi vi parla – di un grande narratore. Jonathan Coe riesce a far convivere magistralmente suggestioni personali e memoria storica, feroce satira politica e thriller che sfocia, nella cornice di un lugubre castello, nel sorprendente ed inquietante finale da horror gotico. Lo fa con stile, capacità di narrazione non comune e preciso e documentato accesso alle innumerevoli fonti a cui sceglie di attingere. Il tutto con brio (citando letteralmente l’attributo che egli stesso ritiene indispensabile: è il cruccio perenne del suo alter ego Michael Owen), senso del gioco d’incastro di temi apparentemente inconciliabili e gusto per la sorpresa. Ma questo è anche un romanzo di denuncia degli anni bui del tatcherismo, della mala sanità, dell’odio e dell’interesse personale che culmina con l’atroce scenario – sia pur raccontato alla tv – del primo conflitto irakeno. Coe dosa sapientemente tutti questi elementi, denotando un vero gusto per la ricerca (vedere la “Nota dell’autore”) e rivelandosi esperto amante della settima arte. Molte le citazioni cinematografiche, compreso il titolo originale dell’opera in questione: Si parte dall’ossessione del protagonista per un film la cui visione interrotta da bambino ne segna profondamente l’esistenza (Sette allegri cadaveri), fino alla rievocazione – un “quasi plagio” fatto con garbo e tanta intelligenza – di Dieci piccoli indiani (dal giallo di Agata Christie), per finire con un omaggio a Oscar insanguinato, horror con un memorabile Vincent Price nei panni di un vendicativo assassino ispirato alle tragedie shakespeariane. Vi è, inoltre, la considerazione più che mai negativa sul medium più abominevole dei nostri tempi, la televisione. Leggiamo questo passo esemplificativo. Dalle parole di Michael Owen: “Ho sempre associato la televisione alla malattia. Non la malattia dell’anima, come qualche commentatore sarebbe pronto a stigmatizzare, ma quella del corpo” (p.313).

Non a caso, Owen è uno scrittore, un uomo di lettere che ha sempre filtrato il mondo, fin dalla precoce infanzia, con l’unico mezzo che un uomo come lui poteva sentire intimamente valido, il libro. Difatti ci dice: “ Era qui che, verso il finire della mia adolescenza, venivo a soffermarmi per ore, lo sguardo incollato alle copertine degli ultimi tascabili mentre Verity smaniava fuori dal negozio. La visione di quei libri mi ha sempre colmato di incanto e stupore: parevano alludere all’esistenza di un lontano mondo popolato da gente meravigliosa, piena di talento e devota ai più alti ideali letterari.”  (p.315)  Quanti di noi, amanti della letteratura d’ogni tipo e genere, si saranno sorpresi incantati per più minuti davanti a una fila di volumi in uno scaffale di una libreria? Quanti di noi hanno perso, in quei momenti, la dimensione del tempo che scorreva?

Nulla, peraltro, nel concitato ed eclatante finale de La famiglia Winshaw, può arginare un destino scritto altrove e lontano nel tempo. Un destino che, nonostante tutto, è affatto consolatorio e che tradisce in Coe un senso di malinconia e quasi impotenza nei confronti dell’orrore del mondo. Questo passo dell’epilogo è emblematico: “ C’è una vena di follia in famiglia, capisce? Siamo tutti matti da legare, bacati nella cocuzza. Tutti. Perché arriva il momento, Michael in cui rapacità e follia diventano una e una sola cosa. E poi arriva un altro momento in cui anche tollerare la rapacità, e viverci fianco a fianco, o addirittura prendersene carico, diventa una sorta di follia. La follia non ha mai fine. Almeno per… (la sua voce si assottigliò in uno spettrale sussurro) …per chi continua a vivere” (p.463)

Il senso della ricerca di Michael è, in conclusione, tutto orientato a svelare il mistero originario: la morte di Godfrey. Ma più si avvicina alla verità sul tragico evento, più scopre che è proprio la sua vita a rivelarsi come un mistero che si avvia a soluzione. Egli non poteva certo immaginare, forse intuendo solo quando ormai è troppo tardi, che la sua progressiva presa di coscienza gli avrebbe fatto incontrare un destino beffardo quanto ineluttabile: il proprio.

Federico Magi, settembre 2006.

Edizione esaminata e brevi note

Jonathan Coe è nato a Birmingham nel 1961, si è laureato a Cambridge e Warwick, vive a Londra. Artista poliedrico, è anche musicista, giornalista e critico letterario oltre che scrittore di successo. Suo primo romanzo è “Donna per caso”, ma ha raggiunto la notorietà e il definitivo successo con “La famiglia Winshaw” e “La casa del sonno”.
Jonathan Coe, “La famiglia Winshaw”, Feltrinelli, Milano. Prima edizione ne “I Canguri” aprile 1995.
Traduzione di Alberto Rollo. Prima edizione originale “What a carve up”, 1994