14-15 luglio 2018
Stando alle informazioni in mio possesso il modo migliore per arrivare ad Istanbul è via mare: Corrado Augias nel suo libro dedicato alla città lo dice chiaramente, il poeta premio Nobel Russo Ivan Bunin lo fa capire tra le righe dei suoi racconti di viaggio e Paolo Rumiz nel suo “È Oriente” lo suggerisce caldamente.
Curioso come anche l’attore Marco Paolini, in uno dei suoi spettacoli, dica qualcosa di simile su una rivale storica di Istanbul, Venezia: quasi tutti infatti oggi la raggiungono dalla porta di servizio, il Ponte della Libertà, quando invece il vero accesso è stato per secoli il lato opposto, il Bacino San Marco.
Lavorando con un contratto da impiegato non ho giorni di ferie sufficienti per arrivare via mare e così atterro molto più banalmente all’aeroporto Atatürk. Ad aspettarmi c’è Selim: venticinque anni, carnagione bianca, occhi verde chiaro e lineamenti occidentali, barba un po’ rada, non esattamente quello che ci si aspetta da un turco. L’ho conosciuto quattro anni fa durante uno stage in Tunisia, per oltre un mese abbiamo condiviso un letto matrimoniale in un appartamento dove la sera bisognava scegliere se usare la poca elettricità presente per il frigorifero o per la luce. Le difficoltà, molto più delle gioie, legano le persone
Selim adesso abita in uno studentato alla periferia di Istanbul, proprio dalla parte opposta rispetto all’aeroporto e così per arrivarci impieghiamo quasi tre ore: metropolitana, treno Marmaray che passa sotto il Bosforo, un’altra linea della metropolitana e poi autobus. Numeri ufficiali parlano di 15 milioni di abitanti, ma è probabile che siano di più. Il primo giorno non vedo quasi nulla della città e quello successivo nemmeno perché prendiamo l’auto di Selim e puntiamo verso sud, direzione Bursa, la sua città natale.
Attraversiamo una lunga insenatura del Mar di Marmara, il Golfo di Izmit: dal 2016 lo si può fare percorrendo il ponte Osman Gazi, impressionante struttura sospesa lunga più di 2,5 chilometri che però non è molto utilizzata dai locali a causa del pedaggio salato. Il mezzo preferito sono ancora i traghetti: lavorano sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro, hanno prezzi popolari e il tragitto dura solo 40 minuti. Il Mar di Marmara ha un colorito scuro e le piogge degli ultimi giorni gli hanno dato una sfumatura marrone. Il bar di bordo vende i tradizionali simir, ciambelle di pane con semi di sesamo, mısır, pannocchie bollite e arrostite e ovviamente çay, tè.
Quando sbarchiamo siamo ufficialmente nella regione di Bursa, la prima capitale dell’Impero Ottomano, dal 1326 fino al 1365, quando venne spostata ad Edirne ed infine ad Istanbul. Il paesaggio è familiare, tipica macchia mediterranea con tanto di uliveti e vigneti che Selim, da musulmano osservante, ci tiene a specificare che servono solo per frutta e succhi. Continuiamo verso sud e facciamo sosta nel villaggio di Tirilye, oggi incantevole località di mare con tanto di negozi di souvenir, ristorantini sul lungo mare e porticciolo romantico. In passato fu un importante cittadina commerciale e religiosa, in questo caso greco ortodossa. La sua attrazione principale è la moschea Fatih: chiesa bizantina dell’VIII secolo riconvertita in moschea quando gli Ottomani invasero la regione. All’interno il particolare più curioso è l’abside: non essendo questo perfettamente rivolto a sud-est, in direzione della Mecca, è stato montato un pannello obliquo che ha risolto il problema senza dover modificare la struttura originale.
Continuiamo verso Bursa, la famiglia di Selim ha abitato qui per buona parte della sua infanzia ma adesso i genitori hanno dovuto trasferirsi più nell’entroterra perché il padre, veterinario specializzato in bestiame da allevamento, ha là il suo studio. Costeggiamo quindi la città, ci torneremo domani, ed entriamo in una zona collinare con vegetazione ancora mediterranea e qualche laghetto artificiale. L’acqua ricopre un ruolo particolare
nella cultura locale: Selim mi spiega che spesso lungo le strade principali si possono trovare fonti artificiali fatte costruire da abitanti della regione che sperano così di accumulare quelli che lui chiama scherzosamente “punti paradiso”. Vagli a spiegare che in Italia qualche anno fa abbiamo addirittura organizzato un referendum per decidere se privatizzare l’acqua.
In circa un’ora siamo a Büyükorhan, letteralmente “Grande Orhan”, in onore di Orhan Gazi, secondo sultano dell’Impero Ottomano e figlio di Osman I, il sovrano che conquistò Bursa. Il villaggio ha poche migliaia di abitanti, un’atmosfera piacevole e bucolica. Ad accoglierci c’è sua madre, Sibel:” Benvenuto Francesco!” A quanto pare si è imparata qualche parola in italiano: “Come stai?”
Non abbiamo mangiato quasi nulla da stamattina e così consumiamo un rapido spuntino a base formaggio di capra, cetrioli, pomodori e dolma, involtini di foglie di vite con carne macinata, riso e verdure. Prepararli è un’operazione complessa, mangiarli è questione di secondi.
Cerchiamo di non esagerare perché Selim ha organizzato una sorpresa: l’attività preferita dai turchi, il pic-nic! Preleviamo una quantità sconcertante di provviste dal frigo, poi un sacchetto di carbone, una tanica di ayran, tradizionalissimo latte con sale e acqua di cui la Turchia è uno dei principali produttori e consumatori e carichiamo tutto in macchina. In tutta la regione ci sono parecchie aree pubbliche attrezzate per il pic-nic, la preferita di Selim è a pochi chilometri: una radura ondulata con gazebi e panche di legno, semplici fornelli dove grigliare, una fontanella e l’immancabile moschea per le preghiere diurne.
Usiamo delle pigne secche come esche ed in breve il fuoco scoppietta, i primi a finire sulla griglia sono dei bocconcini di pollo fatti marinare con olio e spezie, seguono le kofta, polpette di manzo e infine un paio di melanzane che vengono cotte intere. Il padre di Selim, Mustafa, ci raggiunge giusto in tempo, aveva ricevuto una chiamata urgente ed era dovuto scappare: una vacca stava partorendo. Mangiamo di gusto, verdure fresche e pane fanno da accompagnamento e l’ayran bagna il tutto. Le melanzane vengono prelevate dalla griglia, sbucciate e poi la polpa viene sbattuta con l’aggiunta di succo di limone, olio e sale e si crea una gustosa salsa.
Mentre mangiamo rispolvero un po’ del lessico azerbaigiano imparato grazie ad un corso frequentato durante l’Erasmus a Baku, turco e azerbaigiano sono molto simili ma spesso hanno pronunce diverse e così provoco una generale ilarità a causa del mio accento. Per dolce c’è una crema di yogurt con zucchero e riso e dell’anguria. Sono pieno da scoppiare ma Sibel asserisce che non ho mangiato nulla. Madri: uguali in tutto il mondo.
Torniamo a casa, il tramonto distribuisce luce dorata su tutto il paesaggio, coltivazioni di frutta, mais, cipolle e uliveti a perdita d’occhio. La sera guardiamo la replica della finale mondiale con svariate tazze di tè, frutta fresca e dolcetti. Mustafa mi chiede perché la Juventus ha comprato Ronaldo. Durante l’intervallo il notiziario passa le immagini delle celebrazioni per il secondo anniversario del fallito colpo di stato organizzato da una parte dell’esercito ai danni del presidente Erdoğan. A quanto pare il governo non ha organizzato nulla di ufficiale ma il 15 luglio sta lentamente affermandosi come festa nazionale in ricordo di quel giorno.
Siamo entrambi sazi e soddisfatti, la quiete e la frescura delle colline ci fanno addormentare rapidamente.
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