La scorsa primavera ho letto “La splendente” del giovane e talentuoso Cesare Sinatti. Ovviamente “La casa dei nomi” di Colm Tóibín non poteva non riportarmi alla mente il bel romanzo dello scrittore italiano. Le ragioni sono semplici: entrambi gli autori hanno scelto di raccontare il mito ed entrambi lo hanno fatto in chiave estremamente contemporanea. La scelta della forma narrativa, il romanzo, è già di per sé un azzardo poiché si discosta in maniera radicale dallo stile lirico attraverso cui è stata trasmessa la tradizione classica di poemi e altre opere antiche. Il romanzo pretende un’elaborazione più complessa, un’orchestrazione alchemica di accadimenti, dialoghi e psicologie che gli eroi e gli dèi del mondo classico, nella loro originaria e algida purezza, non sempre hanno mostrato di saper possedere. Tóibín e Sinatti hanno saputo riconoscere e rintracciare nel mito gli elementi immutabili e perpetui che caratterizzano il genere umano dalla notte dei tempi e hanno saputo tramutare gli antichi personaggi, afflitti solitamente da una schematica fissità, in figure corporee, attuali e molto simili, per sentimenti e passioni, a qualsiasi altro terrestre.
“Questa casa era piena di nomi” dice una vecchia durante uno dei suoi deliri. Una casa piena di nomi è una casa in cui hanno vissuto molte persone. I nomi mutano, si cancellano, si moltiplicano ma la casa resta così come solitamente restano tutti gli oggetti che sopravvivono ben oltre la vita di chi li ha usati. “La casa dei nomi” diventa quindi una sorta di contenitore di memorie, storie, ombre e silenzi. Tóibín, come spiega nei ringraziamenti finali, si è ispirato all’Orestea di Eschilo, all’Elettra di Sofocle e a Ifigenia in Aulide di Euripide. Una mescolanza di fonti da cui ha tratto la materia prima necessaria alla creazione della sua opera che, soprattutto nella prima parte, si sofferma con attenzione sulla figura di Clitennestra. È lei che, fin dalle prime righe, e in prima persona, ci accompagna all’interno di un dramma che la coinvolge e la travolge. “Ho dimestichezza con l’odore della morte. L’odore nauseabondo e zuccherino che si diffondeva nel vento raggiungendo le stanze di questo palazzo. Adesso per me è facile essere serena e appagata. Ho passato la mattina a guardare il cielo e la luce cangiante. Il canto degli uccelli comincia a levarsi quando il mondo si colma di delizie e poi, al digradare del giorno, anche il suono digrada e svanisce. Guardo le ombre allungarsi. Tante le cose ormai disperse, ma l’odore di morte permane. Forse mi è entrato in corpo, gradito come la visita di un vecchio amico. L’odore della paura e del panico. Quell’odore è qui com’è qui l’aria; torna, come torna la luce al mattino. È compagno fedele; ha ridato vita ai miei occhi, occhi che l’attesa aveva intorpidito, ma non sono torpidi adesso, occhi che adesso un fulgore ravviva“.
Clitennestra sa che solo la morte può consentirle di conquistare degnamente la vendetta a cui aspira. Il castigo ricade su Agamennone, suo sposo e padre dei suoi tre figli, colpevole di aver sacrificato la bella figlia Ifigenia ai voleri degli dèi. Solo con l’uccisione della ragazza, infatti, il vento è tornato a spirare nel verso giusto per condurre in guerra le navi del potente condottiero. Agamennone è partito per mare e Clitennestra si è ritrovata con una figlia sgozzata e un marito che ha permesso che tale abominio fosse compiuto. Nessuno può sanare il dolore implacabile di una madre, né gli dèi né gli altri due figli: Elettra e il piccolo Oreste. Clitennestra sa che deve riparare da sola all’efferato inganno di Agamennone, sa che le divinità sono sempre più distanti dagli uomini e dalle loro preghiere. Con pazienza e astuzia si allea con il pericoloso Egisto che diviene anche suo amante. Deve solo attendere il ritorno di Agamennone e lasciargli credere che tutto sia esattamente come l’eroe si aspetta. In realtà Clitennestra riserva a suo marito una morte molto simile a quella patita da Ifigenia. “Un coltello trafigge la morbida carne sotto l’orecchio, con dimestichezza e precisione, poi solca la gola in silenzio come il sole solca il cielo, più veloce e solerte, però, poi il sangue scuro sgorga con la stessa quiete inevitabile della notte quando cala buia sulle cose conosciute“.
Poche pagine, due inquietanti assassinii. La tragedia richiede morti, non c’è dubbio. E ogni morte scatena conseguenze nefaste e imprevedibili, frantuma equilibri, fa vacillare menti, produce scandali e menzogne. Il clima che si respira nel palazzo di Clitennestra è pervaso da sospetti e tradimenti, spie, silenzi, bugie e segreti. Dell’uccisione di Agamennone non si parla così come si tace la morte di Ifigenia. Elettra conosce l’atroce verità mentre Oreste, ancora bambino, viene allontanato e tenuto distante degli eventi. Tornerà a casa solo alcuni anni più tardi e farà fatica a capire le macchinazioni che si nascondono dietro ai giochi di potere del palazzo. La sua percezione dei fatti è forse più ingenua rispetto a quella di Elettra ma anche più coerente e nitida. Oreste, consapevole delle proprie fragilità, impara velocemente che esporsi o fare domande non lo porterà da nessuna parte e che è meglio non fidarsi di nessuno.
Le figure forti de “La casa dei nomi” sono le donne: Clitennestra ed Elettra. Figure “mitiche” dal cui conflitto Freud ha tratto uno dei principi fondamentali della psicanalisi, il complesso di Elettra. Nessuna coincidenza: a mio avviso Colm Tóibín non ha scelto a caso. Il mito si mescola all’immaginazione, la tragedia si mescola alla narrativa e il risultato è un romanzo potente e lieve allo stesso tempo. C’è la componente, molto attuale, di persone che hanno perso fiducia nel divino e che agiscono seguendo prevalentemente il proprio arbitrio o il proprio istinto. Così come sono attualissimi i viscerali conflitti familiari che mettono in contrasto una madre e un padre, un padre e una figlia, una figlia e una madre, una sorella e un fratello. Tensioni che lacerano gli affetti e producono conseguenze che possono dimostrarsi devastanti. Tóibín ha esplicitato e reso intellegibili pulsioni e pensieri profondamente umani attraverso una scrittura che rimane sempre sottile, accurata e lineare. I personaggi sono afflitti da debolezze e pecche, da furie e odi profondissimi, da desideri e terrori abbandonando così l’aura di intangibilità incorporea che il mito ci ha trasmesso.
Edizione esaminata e brevi note
Colm Tóibín è nato a Enniscorthy, in Irlanda, nel 1955. Dopo la laurea, conseguita nel 1975, si reca a Barcellona ma torna in patria pochi anni più tardi. Negli anni ottanta ha lavorato prevalentemente come giornalista. Successivamente si è dedicato con impegno alla letteratura e alla saggistica pubblicando numerosi romanzi e altre opere conquistando vari e importanti riconoscimenti. Nelle sue opere ci sono spesso richiami al mondo LGBT. Tra le sue opere pubblicate in Italia ricordiamo: “Sud” (Fazi, 1999), “Omaggio a Barcellona” (Serra e Riva, 1991), “Fuochi in lontananza” (Fazi, 2008), “Storia della notte” (Fazi, 2000); “Brooklyn (Bompiani, 2009), “La famiglia vuota” (Bompiani, 2012), “Il testamento di Maria” (Bompiani, 2014), “La casa dei nomi” (Einaudi, 2018).
Colm Tóibín, “La casa dei nomi“, Einaudi, Torino, 2018. Traduzione di Giovanna Granato. Titolo originale “House of Names”, 2017.
Pagine Internet su Colm Tóibín: Sito ufficiale / Wikipedia / The Guardian
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