Montanelli Indro, Abate Tiziana

Soltanto un giornalista

Pubblicato il: 19 Maggio 2007

Non credo sia mai stato facile chiarirsi le idee sulla storia di un giornalista molto amato ma altrettanto detestato come Indro Montanelli.
Un personaggio complesso la cui vita, costellata di battaglie civili o incivili che dir si voglia, ha dato il destro ad interpretazioni tutt’altro che pacifiche; pensiamo solo all’ampia biografia di Marcello Staglieno, già suo collaboratore al “Giornale”, che, alla fine del volume, nella sua veste di simpatizzante leghista e poi della nuova destra post fascista, ha dovuto fare i conti, tra imbarazzi e reticenze, col suo vecchio amico Indro ormai lontano dalle sue posizioni politiche e soprattutto professionali (F. Orlando pensa che dietro lo pseudonimo di “Licinio il Vecchio”, braccio armato dell’Indipendente di Feltri,  uno dei più accaniti demolitori del mito Montanelli durante  la campagna di stampa del 2001, ci fosse Salvatore Scarpino, oppure lo stesso Staglieno) .
Oppure pensiamo al più recente e documentatissimo “Lo stregone”, dove gli autori Gerbi e Liucci, ben analizzano le debolezze, le cantonate, le millanterie, le contraddizioni e gli anni più oscuri di quello che comunque ammettono essere stato forse il più importante giornalista italiano.
In qualche modo un replica parziale a certe interpretazioni, polemiche e leggende metropolitane imbastite ad uso e consumo di un pubblico partigiano è stata data dallo stesso Montanelli nella sua autobiografia professionale, frutto di otto anni di conversazioni con Tiziana Abate, sua collaboratrice al “Giornale” e, poi, alla “Voce”.
Per coloro che, come il sottoscritto, sono stati lettori, oltre che del corrierone, anche del “Giornale”, forse l’unico quotidiano italiano che, prima della metamorfosi del 1994, si meritava l’appellativo di liberalconservatore, “Soltanto un giornalista” non aggiungerà molto a quanto già si poteva sapere.
Un libro che tuttavia ha il merito di raccontare, con la consueta semplicità e brutale schiettezza al limite del cinismo, la sua vocazione, le sue avventure, i suoi reportage dai fronti di guerra, le sue idee, le sue battaglie, affrontate gagliardamente nel corso di ottant’anni di storia italiana.

“Da quando ho cominciato a pensare, ho pensato che sarei stato un giornalista”. Non poteva iniziare altrimenti la testimonianza di chi ha fatto del giornalismo e solo del giornalismo la vocazione di una vita, al punto di rifiutare lo scranno tra i senatori a vita (” Per coerenza rifiutai l’offerta del laticlavio che mi fece il presidente della Repubblica Cossiga. Poi m’avrebbe creato dei vincoli di riconoscenza che avrebbero limitato le mie libertà – pag. 281″) e la direzione del Corriere della Sera (“Ammetto che al momento tentennai. Poi decisi di rifiutare. Se avessi accettato nessuno avrebbe tolto di testa a nessuno che avevo rotto con Berlusconi perché avevo in tasca quell’offerta. E ci avrei perso più di un palazzo: ci avrei perso la faccia” – pag. 301).
Comportamento che sicuramente rende più discutibili le affermazioni dei suoi accaniti detrattori: prima i suoi nemici storici, comunisti e progressisti assortiti, e poi, i fedeli seguaci del nuovo corso dell’esotica destra italiana, talvolta gli stessi che poco prima si definivano compagni e che, ora come allora, lo avevano tacciato di essersi venduto ai “poteri forti”.
L’avventura professionale di Montanelli inizia sotto il fascismo: da qui i primi entusiasmi giovanili, le prime insofferenze per la risibile retorica del regime, poi la fronda, condivisa con un bastian contrario come Leo Longanesi e poi infine il controverso passaggio all’antifascismo.
Controverso, non soltanto perché più che di conversione si trattò di una evoluzione che partì da destra e rimase a destra (peraltro ben prima del 25 aprile, trattato come un appestato, il badogliano e monarchico Montanelli maturerà posizioni anti-antifasciste, almeno in parte espressione del suo vezzo di andare controcorrente); ma anche perché, nonostante la condanna a morte da parte dei nazisti e la sua collaborazione con gli esponenti del Partito d’Azione, evitando di vantare un premiante passato di perseguitato, oltre all’impegno per evitare la vittoria di quel Fronte Popolare che guardava all’URSS come ad un paradiso in terra, a partire dal dopoguerra i suoi strali toccarono argomenti fastidiosi (e, a detta di tanti, completamente falsi) per la nuova intellighenzia politica e culturale: il conformismo di una sinistra ricca di epuratori dal passato più compromesso degli epurati, alla retorica della Resistenza, da lui considerata una pagina gloriosa per pochi, di riciclaggio per molti, degna di essere ricordata per gli esempi morali di alcuni coraggiosi, piuttosto che efficace strumento militare per vincere la guerra civile e cacciare l’invasore nazista, la polemica con la storiografia ufficiale che sempre ha negato il forte consenso attribuito al fascismo da quegli italiani dall’incerto livello di civismo e sensibili, ora come allora, al populismo ed al cosiddetto uomo forte.

Da qui il timore che un eccesso di retorica, il monopolio politico della sua celebrazione e le fantasiose ricostruzioni che hanno dissimulato una realtà ben più prosaica, potessero causare una crisi di rigetto nella nuove generazioni, peraltro poco consapevoli della loro storia più recente, ed aprire la via di un interessato e disonesto revisionismo.
L’assenza di un vero e proprio indice del libro rende arduo fare un po’ di ordine nella gran mole di incontri, drammatiche vicende storiche vissute in prima persona, argomenti polemici che il nostro giornalista ha dispensato per tutta la sua vita professionale e complica più che mai una recensione già di per sé estremamente complicata: l’impossibilità di una virtuosa sintesi relativa ad ottanta anni di controversie politiche, culturali e giornalistiche mi impone di proporvi soltanto qualche spunto tratto dalle oltre 300 pagine dell’autobiografia.
Innanzitutto la sua formazione in un’Italia non democratica, le prime esperienze su “Omnibus”, il contrastato rapporto con Leo Longanesi e la vicinanza con grandi nomi del giornalismo e della cultura italiana come Piovene, Buzzati, Flaiano, Maccari; l’avventura coloniale in Africa e l’inizio del disincanto per quello che, agli occhi di tanti giovani educati sotto il fascismo, appariva l’unico regime che poteva portare a termine tutto quanto il Risorgimento aveva lasciato incompiuto.

Da qui la fronda, propria di alcuni giovani fascisti che iniziavano a pretendere un’inversione di rotta da parte della monarchia, fino ad allora succube di un Duce ai loro occhi sempre più incomprensibile; poi l’avventuroso racconto di quei reportage dai paesi baltici e dalla Polonia, nel mezzo delle invasioni naziste e sovietiche che gli procurarono non pochi grattacapi con la censura (al tempo, in virtù del patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov, il fascismo non gradiva che si drammatizzassero le mattanze hitleriane e comuniste).
Pochi anni dopo la reclusione a San Vittore, la sua condanna a morte da parte di un tribunale militare nazista per aver tramato contro il regime, pare a causa di un colloquio con una Maria Josè “cospiratrice”, l’intervento provvidenziale del cardinale Schuster e la fuga.
Il dopoguerra vide più che mai Montanelli protagonista, non soltanto per il suo impegno contro la vittoria elettorale del P.C.I. e la cultura di quella sinistra che faceva riferimento al blocco sovietico: nonostante si preferisca uno stile più distaccato, quello che resta tutt’ora attuale, per coloro che vogliano avvicinarsi alla professione giornalistica, sono i suoi discussi reportage come inviato del Corriere della Sera, in Giappone, in India, ma soprattutto in Ungheria 1956, al tempo della rivoluzione popolare e dell’intervento sovietico.
Le dieci pagine di “Soltanto un giornalista” dedicate alla rivolta di Budapest in realtà non rendono l’idea di cosa al tempo vollero dire gli articoli del destrorso Montanelli nella nostra Italia divisa tra filo-occidentali e filo-russi: la tesi di fondo del nostro giornalista, presente durante la rivolta e poi durante feroce la repressione, era che a Budapest ci fu un tentativo, fallito, di opporre alla dittatura di stampo sovietico una forma di socialismo coniugato con la democrazia; una rivoluzione non certo imbastita da famigerati provocatori reazionari, come si diceva al tempo, ma semmai un rivolta disperata da parte di operai e studenti di fede marxista che volevano conciliare i loro ideali con la democrazia e l’indipendenza nazionale.
In questo modo Montanelli riuscì a scontentare tutti, destra e sinistra, paradossalmente convergenti sull’interpretazione degli eventi come rivolta dei borghesi contro il comunismo (Longanesi gli tolse il saluto fino a poco prima di morire).
Ancora oggi, a distanza di tanti anni, i reportage da Budapest fanno discutere. Miriam Mafai, la stessa che pure pochi anni fa si era resa protagonista, insieme a Corrado Augias, di una sorta di “processo” televisivo al giornalista, emanando una “sentenza” tutt’altro che lieve, nella prefazione a “La sublime pazzia della rivolta”, raccolta di tutte le corrispondenze dall’Ungheria, recentemente edita da Rizzoli, così si esprime: “Allora, cinquant’anni fa (per pigrizia, per pregiudizio, per distrazione?) non le avevo lette. Sono pagine così intrise di verità ed intelligenza da restare indimenticabili”..”Dovranno trascorrere molti anni perché anche i comunisti italiani riconoscano il valore democratico di quella infelice battaglia combattuta e persa a Budapest. Montanelli lo aveva capito prima di noi” (pag. 8).

Diversa interpretazione quella di Enzo Bettiza, antico collaboratore del “Giornale”, che contesta l’interpretazione della rivoluzione ungherese nata per affermare una sorta di “comunismo democratico”: nel suo “1956. Budapest, i giorni della rivoluzione” pone invece l’accento sugli aspetti propriamente nazionali di quella rivolta e, maliziosamente, rileva come Montanelli, oltre ad essere condizionato anche in questa occasione dal suo essere bastian contrario, quella borghesia di cui diceva voler essere testimone, in realtà nel suo intimo la disprezzasse profondamente.
“Soltanto un giornalista” prosegue con brevi flash di incontri eccellenti e con personaggi a dir poco controversi, dittatori, papi, politici di rango (stranieri ) e politici non di rango (italiani): qui, con poche pennellate, viene fuori tutta l’abilità del giornalista nel creare in poche righe un ritratto che difficilmente si potrà dimenticare; ma anche il limite del ritrattista che, come nel caso di De Gaulle, Salazar, Winston Churchill, Franco, Moshe Dayan, Ben Gurion, non sempre riesce a scindere l’oggettiva e complessa analisi storica dalla prima impressione di simpatia o antipatia umana.
A partire dal capitolo XXI gli anni del ’68 e le difficoltà professionali al Corriere ormai in mano ad una Giulia Maria Crespi in vena di epurazioni (ne fece la spese anche Buzzati): “Il conformismo al nuovo regime seppe mascherarsi particolarmente bene con la maschera dell’entusiasmo. In pochi anni la borghesia che avevo conosciuto ed apprezzato era diventata irriconoscibile. S’era trasformata in un gregge che inveiva contro il potere per nascondere a se stessa d’essere caduta in soggezione d’un altro potere. E la cultura esercitava l’inalienabile diritto italico di perseguitare chi stava fuori dal coro. Una sera entrai solo soletto da Bagutta dove per anni ero stato di casa. Quelli che erano seduti ai tavoli li conoscevo tutti, e tutti abbassarono gli occhi sul piatto per non salutarmi. Lalla Romano non si limitò a questo: alzò il pugno chiuso”..”Quanto ai contenuti, erano movimenti che s’apparentavano alle avanguardie neofasciste: pretendevano d’andare verso il futuro sventolando bandiere del passato” (pag. 219).
Poche frasi che ben testimoniano il clima difficile che si era creato intorno a Montanelli, e non solo intorno a lui: “era stata infranta la regola albertiniana che sino a quel momento aveva contraddistinto la vita del Corriere, ossia l’equidistanza politica. Di colpo i partiti iniziarono a fare pressione perché i propri iscritti fossero eletti a rappresentare la redazione… Erano i giornali che si autocensuravano a partire dal linguaggio e il sindacalismo divenne la scorciatoia per i galloni che non si erano conseguiti attraverso i successi professionali…A saltar fuori era sempre il vizio degli italiani. In Italia il giornalista non si sente espressione dell’opinione pubblica ma portavoce della sua fazione. Attacca in nome della confraternita di cui fa parte ma non dirà mai una parola contro la sua confraternita” (pag.226).

Corenti le frequenti le frecciate rivolte ai numi tutelari della cultura accademica italiana, a suo dire autoreferenziale e sostanzialmente mafiosa. Fu con l’arrivo di Piero Ottone alla direzione del Corriere, giornalista considerato molto più a destra di lui, ma, nella sua nuova veste, accomodante nel sostenere una linea politica di sinistra gradita alla Crespi, che Montanelli, messo alle strette, fu costretto a cambiare aria (“mi comunicò che il consiglio di amministrazione del Corriere – in seguito, come seppi poi, ad un ultimatum della Zarina – aveva dichiarato incompatibile la mia firma col giornale. E pertanto m’invitava a scegliere fra il licenziamento e le dimissioni. Ottone stava lì ad implorarmi di cavarlo d’impaccio”).
Seguirono mesi difficili da “pensionato”, in attesa di approdare alla fondazione del “Giornale”, in compagnia di non pochi reduci del Corriere: periodo difficile per la carenza di finanziamenti, nonostante si dicesse che Montanelli fosse sostenuto dai “poteri forti”.
La realtà era che, per quieto vivere, anche coloro che in teoria potevano essere idealmente in sintonia con Montanelli e la sua pattuglia di liberali, ben pochi si azzardarono a sostenere il nuovo quotidiano; lo stesso Berlusconi che ancora non aveva fatto fortuna come palazzinaro, non era nel gruppo dei finanziatori.
Proprio di quel periodo l’incontro con Licio Gelli: “Con lui ebbi un solo contatto nel ’77. E sfiorai la catastrofe. Io passavo le notti in bianco per il rovello dei debiti…Qualche tempo dopo, quando la bufera della P2 si scatenò ricordai quell’episodio – a Renzo Trionfera n.d.r. – Renzo, ringraziamo Iddio che quel bischero ci abbia accolti così. Perché se lui ci avesse detto: se volete salvare il Giornale dovete entrare nella P2, noi c’entravamo. Senza sapere cosa fosse, come è successo a tanti”.
Era il giugno 1977 e vennero giorni ancora più difficili: furono quattro le pallottole che gli furono recapitate diritte nelle gambe.
In quell’occasione, come ricorda lo stesso Montanelli, i suoi colleghi non si smentirono: Ottone non si fece vivo e titolò in prima pagina del Corriere “I giornalisti nuovo bersaglio della violenza”.
Ma fu l’occasione per mostrare, nel bene e nel male,l’indole di altri personaggi, questa volta descritti dal giornalista con una ricca dose di ironia: “Golda Meier: sono lì accanto a te anima e corpo. Una prospettiva che, nonostante l’infermità mi causò un lieve sobbalzo”, “Berlusconi, con il quale avevo fatto conoscenza poche settimane prima, si presentò al mio capezzale piangendo come un bambino. Mi toccò consolarlo come se avessero sparato a lui”.
L’attentato fu poco dopo rivendicato dalle Br e nel comunicato, tra le altre cose, lo definivano “un fascista mascherato, finanziato dalle multinazionali”: ” Bisognava avere delle multinazionali un’opinione molto bassa – parlo dal punto di vista economico – per pensare che mantenessero un giornale come il nostro”.

Poco dopo la cessione delle quote del “Giornale” a Berlusconi: “Gli dissi: tu ti fai carico della gestione amministrativa. Ma ovviamente non interferisci né con la gestione giornalistica né con la linea politica. E la parola per anni la mantenne”. Poi fu tangentopoli, il sostegno del quotidiano a “Mani pulite” e la cronaca più recente con Berlusconi, privo di padrino politico, intenzionato a scendere in politica. A quel punto, l’imprenditore che, come ha sempre ammesso Montanelli fino ad allora era stato quanto mai discreto e quasi disinteressato della linea politica del “Giornale” cambiò registro.
E il nostro non lesina frecciate: “sapevo bene che la sua discesa in campo muoveva esclusivamente da interessi personali; me lo aveva detto chiaramente lui stesso” (pag. 295). Ed inoltre: “La scelta di Berlusconi mi poneva in un grande imbarazzo personale. Finchè l’editore era un semplice imprenditore le sue scelte politiche non mi riguardavano. Ma come faceva un Berlusconi capopartito a rinunciare ad uno strumento d’informazione autorevole come “Il Giornale”? A quel punto avrei avuto la vita impossibile: se m’opponevo facevo la figura dell’ingrato; se m’adeguavo quella del cortigiano”; A sconcertarmi era che gli uomini di Berlusconi avessero il campo libero contro il direttore d’una testata del suo gruppo” (pag. 296).
Abbandonato il “Giornale” dopo mesi di attacchi da parte di Fede, Sgarbi e compagnia, e soprattutto dopo mesi di ingerenze di quell’editore col quale, fino a poco prima. non aveva mai avuto alcun motivo di lamentela, Montanelli, a ottantacinque anni (!!!) tentò una nuova avventura editoriale con la “Voce e poi, su invito di Mieli e Agnelli, tornò al “Corriere”, di cui gli fu offerta anche la direzione; ma del suo rifiuto abbiamo già detto.
Di questo periodo convulso e controverso ho già parlato in altra sede riguardo i libri di Travaglio e Orlando, cui rimando per approfondimenti.
Uno degli ultimi contatti col vecchio editore risale al 1996 ed ancora non viene risparmiata una perfida frecciata: ” Una sera mi ritrovai di nuovo seduto alla sua mensa ad Arcore. Riparlammo senza rancore dei nostri trascorsi. Gli domandai quale garanzia avesse ricevuto da D’Alema sulle sue aziende in cambio dell’opposizione inesistente che gli assicurava. Rise. Ma perché ora che hai sistemato i tuoi affari, non ti chiami fuori dalla politica? – gli chiesi – E’ una parola – mi rispose – i giudici non obbediscono neppure a D’Alema. E lì capii quale era, ormai, il suo dramma” (pag. 312).
Comunque la si voglia pensare, e sicuramente molti gradiranno altre forme di giornalismo (vedi Emilio Fede e Belpietro), va rilevato che Montanelli ha fatto ammenda di tutti quegli errori che gli sono stati giustamente attribuiti: dall’ingenuità di presentarsi ad un festival dell’Unità, accolto come una sorta di “compagno”, alle prime pagine della “Voce”, innovative ma a volte anche eccessive.
La verità è che il nostro giornalista ancora una volta non si riconosceva in questa nuova Italia, ammettendo che gran parte dei suoi lettori erano ben più a destra di lui, o comunque di una destra diversa da quella che idealizzava; altra cosa rispetto a quella che ormai aveva preso il sopravvento e che era da sempre nelle corde degli italiani.
La testimonianza si chiude con la postfazione di Tiziana Abate, la collaboratrice che negli anni negli anni aveva raccolto le sue confidenze e le sue memorie: alla vigilia della morte le chiese che il manoscritto venisse purgato di tutti i riferimenti alla sua vita persona ed extraprofessionale, peraltro estremamente preziose e ricchi di retroscena.
Voleva, dandole il titolo, che fosse la testimonianza non di un protagonista, ma soltanto di un giornalista.
Forse l’ultima contraddizione: pochi potranno pensare che sia stato “soltanto un giornalista”.

 

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” A Emilio Cecchi debbo il consiglio che si è rivelato il più prezioso della mia carriera: ‘Ricordati che i giornalisti sono come le donne di strada: finché vi rimangono vanno benissimo e possono anche diventare qualcuno. Il guaio è quando si mettono in testa di entrare in salotto”.

“Fra gli annunci economici di Lotta Continua, ne è comparso uno che dice: «Compero a L.100.000 una tesi di laurea, anche già presentata, purché tratti un argomento attinente all’Inghilterra, o alla lingua, storia, letteratura inglese. Meglio se con una impostazione femminista». Curioso. Questi grandi rivoluzionari, che dicono di battersi per costruire una società nuova di zecca, quando si tratta di lauree, si contentano anche di quelle usate e di seconda mano”. Controcorrente del 3 marzo 1978.

“In una conferenza stampa a Nuova Delhi, Henry Kissinger ha dichiarato che verrà a Roma e andrà a pranzo dal presidente Leone, ma non parlerà di politica perché quella italiana è, per lui, troppo difficile da capire. È la prima volta che Kissinger riconosce i limiti della propria intelligenza. Ma vogliamo rassicurarlo. A non capire la politica italiana ci sono anche cinquantacinque milioni di italiani, compresi coloro che la fanno”. 31 ottobre 1974

“I principi restano e le idee invece cambiano con gli uomini cui vengono date in appalto. L’impegno della coerenza ho imparato a riservarlo soltanto ai valori fondamentali cui un uomo deve ispirare la propria condotta: il dovere dell’onestà, della sincerità, del coraggio, della responsabilità. Ma sul piano delle idee, sono state proprio l’onestà, la sincerità e il coraggio che mi hanno costretto a cambiarle ogni volta che mi sono trovato di fronte all’evidenza del loro o del mio inganno”.

Edizione esaminata e brevi note

Indro Montanelli – Soltanto un giornalista – Testimonianza resa a Tiziana Abate – Rizzoli “Bur saggi” – Milano 2002

Recensione già pubblicata il 25 aprile su ciao.it e qui parzialmente modificata.

Luca Menichetti. Lankelot, maggio 2007