“A poco a poco lo scarabeo gli si avvicinava, procedeva col suo corpo cangiante, come se quel percorso senza scopo gli avesse insegnato che, nella traversata di un mondo in mutamento perpetuo, l’unica cosa che contava era irraggiare bellezza. E se lui stesso avesse asserito in termini siffatti il valore della corazza protettiva dei propri sentimenti? Era, sotto il profilo estetico, abbagliante come quella dello scarabeo? Era abbastanza solida da offrirgli uno scudo efficace? In quel momento, finì quasi col persuadersi che tutto il mondo che circondava lo scarabeo – il fogliame, l’azzurro del cielo, le nubi, le tegole del tetto – esisteva soltanto per servirlo. Giacché lo scarabeo era il perno, il nucleo stesso dell’universo”. pp.170-171
È come sempre la bellezza, nella sua evidenza estetica ma ben oltre la dimensione meramente fisica, un elemento irrinunciabile della letteratura di Yukio Mishima. Con Neve di primavera, primo romanzo della tetralogia Il mare della fertilità, opera conclusiva dell’artista giapponese – divisa in quattro narrazioni autonome legate da un sottile filo rosso e da una figura di riferimento (Honda), pur realmente protagonista solo negli ultimi due libri -, Mishima comincia a tessere quello che agli atti resterà come il suo testamento letterario-spirituale, immaginato e congegnato fin nei minimi termini nel momento stesso in cui scelse di far coincidere il proprio suicidio (espletato attraverso il rituale del seppuku, in diretta televisiva) con la consegna del quarto e ultimo libro della tetralogia (Lo specchio degli inganni – La decomposizione dell’angelo) all’editore. Nelle intenzioni di Mishima questo intenso romanzo d’apertura fu il primo tassello di una critica globale, filtrata attraverso la narrazione di personaggi archetipici e situazioni paradigmatiche, ad un mondo in progressivo disfacimento morale e spirituale: il Giappone del tempo che lo avrebbe ospitato. Neve di primavera è ambientato agli albori del Novecento, proprio alla fine del periodo Meiji (detto anche “periodo del regno illuminato”, che va dal 23 ottobre del 1968 al 30 luglio 1912), tempo del primo mutamento della struttura politica, economica e sociale in senso più occidentale.
Nella storia che ci viene raccontata spiccano alcune figure fondamentali. Protagonista è il giovane Kiyoaki, diciottenne ultrasensibile e bellissimo, figlio di una famiglia aristocratica molto in vista nel Giappone imperiale, che vive un mondo di passioni che sembra vincerlo a più riprese rendendolo preda di tormenti esistenziali ai quali non riesce a partecipare, nonostante la forte amicizia, il compagno di studi Honda. Honda del resto è un razionale, figlio di un uomo di legge, e proteso totalmente verso la vita attiva. E poi c’è Satoko, figlia di una nobiltà in decadenza, amica di infanzia di Kiyoaki e dotata anch’ella di una bellezza non comune, tanto da venir scelta come futura sposa dal principe imperiale. Ma Kiyoaki e Satoko si innamorano, vivendo in totale segreto, se si eccettua Honda e una servitrice della ragazza, un sentimento dirompente che consuma le loro stesse esistenze e che è destinato a creare un cortocircuito nei fragili equilibri di un’aristocrazia che sopravviveva ormai stancamente a riti e tradizioni ancestrali.
Con questo dramma potente e gelido come la neve che fa da cornice al racconto, Mishima vuol significare, come detto, l’inizio di un’epoca di profonda decadenza, non rinunciando però a disegnare individualità molto caratterizzate ed esemplificative sia delle tendenze in progressivo mutamento che delle forze in opposizione al turbinio inarrestabile della storia. Nel primo atto della sua opera-testamento, il letterato giapponese è concentrato in effetti a definire le forze in campo, ma al contempo – ed è considerando ciò che Mishima decide di deporre le armi concettuali, nel prendere definitiva coscienza del turbinio inarrestabile della storia, scegliendo la via del suicidio rituale come forma di eclatante protesta – a lasciarle al loro ineluttabile destino. Nella prima metà del romanzo l’artista giapponese è attento a descrivere nei minimi termini i riti e le consuetudini della fine di un’epoca, indugiando su feste, banchetti, usanze, tradizioni e concetti propri di un Giappone che esiste ormai solo sui libri di storia, fino a testimoniarne la morte attraverso il dramma vissuto dai protagonisti sulla ribalta. Kiyoaki, Satoko e Honda, sia pur quest’ultimo relegato a un ruolo ingrato e marginale, sono dunque i simboli di questo mondo morente e allo stesso tempo i figli sfortunati di quello che sta per nascere; sono la passione (Kiyoaki, evidente alter ego dell’autore), la rassegnazione (Satoko) e la ragione (Honda) di una civiltà ancora inconsapevole dei mutamenti a venire, ma in qualche modo ne sono anche i primogeniti disgraziati, gli agnelli sacrificali sull’altare del nuovo sole nascente. Mishima però parla dalla sua posizione di spettatore “privilegiato”, già a conoscenza degli accadimenti del mondo rispetto al quale Honda sarà testimone per tutti e quattro i libri (la Tetralogia è stata scritta tra il 1965 e il 1970), scegliendo dunque di utilizzare i personaggi e le ambientazioni, già dal primo romanzo, come soggetti e luoghi funzionali ad una critica transtorica che è temporalmente collocata all’inizio del secolo ma che idealmente abbraccia un più corposo arco di tempo, per accomunare nella stessa sorte coloro che hanno vissuto il periodo ingrato della piena occidentalizzazione della terra del Sol Levante.
Dei quattro libri della tetralogia, Neve di primavera è certamente il più ricercato e complesso (se si esclude la prima parte de Il tempio dell’alba, la cui complessità – spiegò Mishima in un’intervista – voleva essere chiarificatrice della filosofia religiosa che ne era alla base), il più rigoroso e chirurgico, anche nel dosare descrizioni dei rituali e sentimenti dei personaggi; un testo in cui aleggia pesantemente il senso di morte ma nel quale non è affatto estranea la passione incontrollabile e un forte attaccamento alla vita. Eros e Thanatos danzano sinuosamente in questo splendido romanzo come forse mai era accaduto prima al letterato nipponico, le cui infinite maschere dei romanzi precedenti propendevano con manifesta adesione per l’uno o per l’altro verso della medaglia. Qui Mishima è in pieno equilibrio, e tocca punte di ineguagliabile lirismo sia laddove è forte la vita, sia nel momento in cui si avvicina la morte. In questo senso, le ultime pagine di Neve primavera, nel momento in cui la badessa è sorda al pianto infinito di un Kiyoaki allo stremo delle forze, e nel quale il suo amico Honda gli è vicino incondizionatamente donandogli il più pieno ed empatico conforto, sono tra le più toccanti, struggenti e poetiche che potete incontrare nella letteratura del Novecento. L’epilogo del libro è lo snodo fondamentale per comprendere la consequenzialità degli altri tre romanzi, (nell’ordine Cavalli in fuga – A briglia sciolta, Il tempio dell’alba, Lo specchio degli inganni – La decomposizione dell’angelo), pervasi dal costante riferimento al karma e alla reincarnazione come ultimo orizzonte possibile di senso per un Giappone (ed un mondo) che Yukio Mishima aveva ormai scelto di non voler più sopportare.
“Kiyoaki era immerso in uno stato di torpore, tra la veglia e il sonno. Honda invece era perfettamente sveglio, ancorché da gran tempo non si permettesse di dormire. Lasciava che una folla di pensieri andasse e venisse a caso, percorrendo la sua mente in libertà. Tra questi, gli riaffiorò alla mente il ricordo di due sermoni tenuti dalla badessa in due diverse occasioni, e seguiti da effetti diametralmente opposti. Nell’autunno dell’anno precedente l’aveva sentita pronunciare la prima omelia, la parabola dell’acqua bevuta da un cranio. Ne aveva fatto proprio il principio, ricavandone una parabola di suo conio che trattava dell’amore umano. E aveva concluso con una riflessione: sarebbe stato bello, aveva pensato, se un uomo avesse potuto realmente far sì che la sostanza del mondo risultasse pienamente conforme a quella della più intima realtà del cuore”. p.397
Federico Magi, luglio 2013.
Edizione esaminata e brevi note
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