A quanto pare il titolo del romanzo di Kalyan Ray, “Una casa di acqua e cenere”, è stato preferito all’originale “No Country”, che pure prende spunto da una nota poesia di Yeats, probabilmente per motivi commerciali e in considerazione della scarsa frequentazione del lettore italiano con le opere dello scrittore irlandese. Comunque sia il significato non cambia poi molto, lo ha chiarito lo stesso Kalyan Ray in una recente intervista: “casa” intesa come ricerca di un luogo di appartenenza, “acqua” come vita, e “cenere” simbolo della morte. Elementi propri di un lungo racconto dalla struttura circolare e che svela subito intenti ben diversi da quanto si potrebbe pensare leggendo l’incipit del romanzo e certi passaggi presenti in copertina, tipo “perché tutti noi siamo come case d’acqua in perenne movimento, talvolta limpide, talvolta oscure”. Difatti, se la vicenda si apre negli Stati Uniti con l’efferato e misterioso omicidio degli anziani coniugi Mitra, di origine indiana, il romanzo prosegue con un salto indietro nel tempo e nello spazio, nella contea di Sligo e precisamente nell’Irlanda del 1843: insomma, niente che abbia a che fare con un thriller e, secondo noi, neanche con particolari suggestioni tipo “new age”. I primi personaggi che ci vengono raccontati, con tutte lo loro aspirazioni di libertà e frustrazioni di cittadini di un paese sotto il giogo britannico, sono difatti due giovani patrioti irlandesi: da un lato l’inquieto e sanguigno Pàdraig Aherne che, per sfuggire ad un delitto frutto di un’imprudenza, si ritrova a veleggiare verso l’India; mentre Brendan McCarthaigth, in compagnia di Maeve, la giovanissima figlia dell’amico, e dell’anziano maestro, lascia un’Irlanda ormai allo stremo a causa la grande carestia e s’imbarca verso l’America, sperando di lasciarsi alle spalle i lutti e le prepotenze di cui era stato testimone. Seguiranno le vicende americane dei figli e dei nipoti di Maeve; e poi quelle indiane dei discendenti di Pàdraig: di capitolo in capitolo leggiamo i loro racconti in prima persona, secondo la prospettiva del figlio, della figlia, del nipote, a volte fino al compiersi di tragedie per loro mortali. Quello che si chiama il filo della Storia, nel romanzo di Kalyan Ray, significa rivivere il massacro di Jallianwala Bagh, ricordare i pogrom dell’Europa orientale, entrare nella Boscotrecase del 1905 proprio un anno prima della devastante eruzione del Vesuvio, incontrare l’anglo- indiana Estelle Merle O’Brien Thompson prima che diventasse Merle Oberon, assistere alle agitazioni dei wahabiti che furono la premessa del neonato Pakistan orientale e, dall’altra parte del mondo, all’incendio della fabbrica Triangle in quel di New York.
Tragedie della storia che evidentemente Kalyan Ray ha voluto rievocare sia come causa di successive fughe e nuove identità dei figli e nipoti di Maeve e Pàdraig, sia per meglio evidenziare temi a lui cari: la perdita di identità, il senso di sradicamento e di lontananza dalle proprie radici, i danni devastanti del colonialismo, l’isolamento degli anglo-indiani, i matrimoni interreligiosi e interrazziali, lo scherzo del destino che ti fa ritrovare nel momento meno opportuno: “Mi pareva che le nostre vite – quella di Frankie, di Pàdraig e la mia – fossero una visione triste del gioco del nascondino, perché ci cercavamo di continuo. Chissà se mio figlio mi aveva dimenticato. Chissà se gli mancavo. Angosciata, mi domandavo se adesso volesse più bene a mia madre” (pag. 330).
Elementi tutt’altro che estranei allo scrittore che, ricordiamolo, è originario del Bangladesh e in giovanissima età, a seguito della divisione etnica e religiosa tra India e Pakistan occidentale e orientale, fu costretto a rifugiarsi con la famiglia a Calcutta (da qui il personaggio di Kush, originario di Jessore e che poi ritroveremo molti anni dopo a New York). Leggendo “Una casa di acqua e cenere”, se possiamo aver trovato fin troppo dispersiva la costruzione del romanzo, caratterizzata da tante voci tra loro lontane nello spazio e nel tempo, dove spesso l’autore pare soltanto alludere (ad esempio sull’omosessualità di Brendan), non abbiamo trovato nulla da contestare ad una critica che pare aver apprezzato la prosa di Kalyan Ray, sempre molto curata: uno stile che risulta quindi coerente con un’ opera ambiziosa come “Una casa di acqua e cenere”. Romanzo che è innanzitutto saga familiare e melodramma in un mondo perennemente condizionato dallo sfruttamento brutale dei colonialismi, e in cui coloro che sono stati sradicati dalla loro terra d’origine vorrebbero almeno riscoprirsi appartenenti ad una patria e ad una famiglia comune.
Edizione esaminata e brevi note
Kalyan Ray, scrittore indiano originario del Bangladesh. Ha un dottorato in letteratura, ha insegnato al St Stephen’s College, New Delhi al Queens College di New York, nel New Jersey, in Grecia, Equador, Giamaica e nelle Filippine. Ha pubblicato libri di poesie e traduzioni, oltre a un romanzo,Eastwords. Ha collaborato con Madre Teresa in India. È sposato con Aparna Sen, celebre attrice e regista indiana. Una casa di acqua e cenere è la sua prima opera tradotta in italiano.
Kalyan Ray, “Una casa di acqua e cenere”, Nord (collana Narrativa Nord),Milano 2015, pag. 476. Traduzione di Francesca Toticchi.
Luca Menichetti. Lankelot, febbraio 2015
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