Remotti Remo

Ho rubato la marmellata

Pubblicato il: 6 Settembre 2012

Anni fa in televisione si faceva vedere ogni tanto un tipo strano, praticamente un urlatore che, dopo qualche parola buttata là con toni normali, iniziava ad infervorarsi con “me ne vado da” e iniziava a spogliarsi incazzato come una bestia urlando sempre più forte “me ne vado da” ogni dove. Quello era Remo Remotti. Un personaggio decisamente inconfondibile che molti di voi avranno riconosciuto come caratterista nei film di Moretti, dei Taviani e di tanti altri. Conosciuto ai più per le sue apparizioni cinematografiche, Remotti, come scopriremo leggendo “Ho rubato la marmellata”, è anche pittore, scultore, cantante, poeta, umorista, drammaturgo. Peraltro, grazie alla lettura del libro, conoscendo di più l’uomo Remotti, si capisce che quel suo siparietto televisivo forse non era soltanto un pezzo di cabaret ma c’era molto di autobiografico: l’artista romano, durante la sua lunga vita, più di una volta è partito di testa per violente crisi nevrotiche e, prima di venire ricoverato, aveva proprio improvvisato un ritorno allo stato adamitico. Con “Ho rubato la marmellata”, quello che in quarta di copertina viene definito “vate dell’underground romano” si è voluto quindi raccontare senza troppe remore, ed ovviamente alla sua maniera. Non a caso il libro si apre con una lettera del prof. Mario Gozzani direttore della clinica malattie nervose e mentali dell’Università di Roma; come a rivendicare anche i suoi momenti di follia più o meno lucida.

La prefazione è a cura di Filippo Martinez che scrive del libro in maniera entusiastica, replicando a tutte le accuse di scrittura disomogenea che fino ad ora, anche a causa del sussiego e dell’incomprensione di alcuni grandi editori, ne avrebbero impedito la pubblicazione. Intendiamoci, è vero che l’opera di Remotti non si può considerare una vera autobiografia col suo procedere per brevi quadri, anche se tutti con un ordine cronologico. Da qui forse l’accusa, ammesso la si possa considerare tale, di essere un’opera frammentaria. Ma probabilmente è proprio questa sua struttura fatta di brevi capitoli che alternano aneddoti, episodi deliranti della vita di Remotti a pagine nonsense o altrimenti serissime, che rendono il tutto estremamente leggibile ed anche divertente, come una riproposizione su carta stampata di una sua performance cabarettistica.

Si parte dagli anni della sua infanzia, ovvero il Ventennio; poi la scomparsa prematura del padre; la liberazione; la laurea in giurisprudenza; i suoi anni da emigrante in Perù; il boom economico; il rapporto micidiale con la madre; l’amore – odio per Roma; il periodo nel quale Remotti faceva il travet e intanto si guardava intorno per cercare una via di fuga dal grigiore nel quale si era infilato: “A Milano adesso continuava la mia scissione: da una parte il dottor Remotti, laureato, conoscenza di lingue, pratica d’ufficio, già capo vendite di una fabbrica di prodotti plastici in Perù, doppio petto grigio […], e dall’altra parte il Remotti imbrattatele che la sera lavorava accanitamente e cominciava a frequentare i pittori di via Brera”. Poi i ricoveri nelle cliniche psichiatriche; la vita sentimentale e sessuale tra puttane e donne fuori testa, la liberazione sessuale post-sessantotto, spesso vissuta con esiti devastanti, la paternità ad oltre sessant’anni. E poi tanti brevi capitoli dedicati agli amici artisti, fra i quali Fontana, Castellani, Burri, Tolve, Manzoni, Renato Mambor, Vedova, spesso raccontati  in maniera poco ortodossa: “Vedova ci trattava come schiavi […] A nessuno di noi dispiaceva lavorare. Ma quel discorso di scopargli bene lo studio e di preparargli un caffè lungo, con poco zucchero, mi sembrava un po’strano. Soprattutto per un sedicente rivoluzionario come lui”. Anche le prime righe dedicate all’amico Renato Mambor possono lasciare un po’ spiazzati: “[…] è un barbone. Si lava poco, quando va al cesso non tira la catena, si soffia il naso con le mani come fanno i pecorai afghani, dorme vestito buttato lì dove gli capita e si cambia le canottiere, i pedalini, le camicie, le mutande a intervalli lunghissimi, va in giro conciato come un rubagalline, non si pettina mai, la barba se la fa un giorno sì e uno no. Questa è per lo meno l’impressione che dà”. Effettivamente Remotti è capace di esprimere un calore umano molto particolare: possiamo leggere “Lettera ad un amico” che, riferita al suo periodo peruviano, è una pagina piena di affettuosi insulti all’amico Mario che lo voleva raggiungere in Perù e dove il finale – “scegli tu, e vattene a fanculo” – ci riconcilia con quel vaffanculo che oggi non si sa cosa sia diventato, se tristissimo intercalare oppure slogan politico. Ha ragione Martinez quando scrive di “uno spartito allegro e tragico”: “Ho rubato la marmellata” è tutto questo e la vivacità e la follia di Remotti permettono che questi due aspetti, il tragico e il comico, possano convivere in perfetta armonia.

Edizione esaminata e brevi note

Remo Remotti (Roma, 16 novembre 1924) è un attore, pittore e scrittore italiano, nonché scultore, poeta, cantante, umorista e drammaturgo. Ha lavorato, tra gli altri, con Francis Ford Coppola, Marco Bellocchio, Nanni Moretti, Ettore Scola, i fratelli Taviani, Peter Ustinov, Nanni Loy, Maurizio Nichetti, Carlo Mazzacurati, Antonello Salis e Carlo Verdone. Tra le sue opere: “Diario segreto di un sopravvissuto”, “Diventiamo angeli: le memorie di un matto di successo”, “Memorie di un maniaco sessuale di sinistra”.

Remo Remotti, “Ho rubato la marmellata”, Iacobelli, Pavona di Albano Laziale 2012, pag. 272

Luca Menichetti. Lankelot, settembre 2012