Coloro che hanno una qualche frequentazione col cosiddetto “giallo” ad enigma sanno in genere come funziona: un delitto, magari in una camera chiusa o comunque in condizioni apparentemente impossibili, l’intervento di un investigatore, a volte geniale, a volte solo fortunato ed improvvisato, un’inchiesta dove diversi personaggi sono messi sotto torchio, ed infine, dopo aver sistemato per bene tutti i pezzi del mosaico, la scoperta dell’assassino. Diverso discorso nel cosiddetto “noir”, dove, pur rimanendo in piedi il meccanismo del colpo di scena, difficilmente troveremo il ristabilimento dell’equilibrio violato e dove è normale che l’attenzione si sposti dall’investigatore al criminale, con tutto quello che ne consegue, compresa la labilità dei confini bene-male. All’atto pratico però certe distinzioni spesso lasciano il tempo che trovano. Anche nel caso del romanzo “L’alibi della vittima” di Giovanna Repetto è probabile non abbia molto senso mettersi a discutere se risulti più vicino al modello “poliziesco” oppure a quello “noir”. Di certo, che si possa apprezzare o meno il “colpo di scena” imbastito dall’autrice, la costruzione del romanzo dimostra una sua originalità rispetto quanto proposto da più noti scrittori di genere: quel tanto almeno da poter incuriosire il lettore in cerca di qualcosa di meno trito e ritrito.
Il racconto, in virtù di chiari elementi autobiografici, si svolge tutto in Italia ed in luoghi ben conosciuti da Giovanna Repetto, anche se propriamente nell’agro pontino non esiste una cittadina chiamata Rocca Persa, dove operano e tramano i variegati personaggi del romanzo. Senza voler svelare elementi che abbiano la minima parvenza di spoiler possiamo proporre una panoramica dei personaggi del romanzo, molti dei quali profondamente disturbati o in situazioni familiari e personali molto critiche. A Rocca Persa appunto compare periodicamente un certo Memè, individuo misterioso e dedito allo spaccio di cocaina purissima. Gli sta appresso, come amante, la giovane Greta, donna che, con pose da femme fatale e grande cinismo, intende fregarlo e sostituirsi a lui nel commercio di polvere bianca. Alle costole di questo Memè troviamo il Maresciallo Trevisan, onesto militare con qualche problema in famiglia. Sua moglie Anna si sente trascurata e, sempre più inquieta, inizia ad avere qualche fantasia extraconiugale di troppo. Poi, tra i tanti, Alisia, una venticinquenne sbandata e aspirante eroinomane, che è legata a Greta da un rapporto ambiguo e masochistico. Marco Burlando è un tossico ormai perso che la madre vuole mandare in comunità, anche a costo di ricatti, malgrado questi non ne sia affatto convinto e soprattutto non sia affatto pronto per affrontare un programma di disintossicazione. Non molto distanti da lui, la psicologa Lina, responsabile del Sert di Rocca Persa; l’esuberante assistente sociale Maria “Holy Mary”; Gaetano un ex rapinatore in libertà vigilata e col vizietto della cocaina; l’infedele Elvira, sua moglie; il corrotto e violento brigadiere Di Stasio, che conduce un’inchiesta parallela, mettendo pure in conto di sostituirsi a Memè nello spaccio di droga; Melchiorre, ambiguo responsabile della comunità di recupero “La cruna dell’ago”; e i suoi più stretti collaboratori. L’omicidio del misterioso Memè avviene nell’appartamento romano di Andreina Burlando, la zia di Marco, che pure sembra nascondere qualche segreto di famiglia. La peculiarità del romanzo, almeno se inteso come “giallo”, sta anche nel fatto che il lettore sa da subito dell’omicidio di Memè grazie alle note di copertina; altrimenti è probabile, col primo cadavere che appare dopo duecento e passa pagine, che coloro che hanno certa consuetudine col genere ad enigma possano cogliere, da tutta una serie di indizi e soprattutto dalle frequenti descrizioni di disagio familiare, chi sia l’assassino ancor prima di aver capito chi sia il morto ammazzato. In questo senso anche il titolo “L’alibi della vittima” assume un suo più profondo significato e non soltanto perché i personaggi sotto inchiesta e quelli ancora sconosciuti alle autorità vengano descritti tutti con un alibi più o meno ferreo ed ugualmente in possesso di un valido movente.
Peraltro, come intuibile, è un romanzo al quale l’aggettivo “corale” si attaglia benissimo. Non c’è affatto un protagonista, positivo o negativo che sia, tale da distinguersi da tutti gli altri e che risulti da solo al centro dell’attenzione dalla prima all’ultima pagina. Anzi le stesse investigazioni lasciano il passo ad altre vicende più private e, proprio come una sorta di tragedia greca, lo svolgimento sommario delle indagini viene raccontato sostanzialmente grazie al controcanto dei due appuntati Tommasiello ed Esposito. Giovanna Repetto – ripetiamolo – in virtù della sua competenza professionale in merito alle dipendenze patologiche, ha piuttosto focalizzato la sua attenzione sul disagio, sulla corruzione e sulle perversioni dei tanti personaggi: una sorta di repertorio clinico fatto di calo del desiderio, seduzione come arma di potere, dominazione sessuale sul partner, relazioni extraconiugali sognate e realizzate, rapporti coniugali tenuti insieme dal masochismo, dipendenza da sostanze stupefacenti, abusi sui minori e parecchio altro che per fortuna non appare forzato ed anzi, anche grazie alla brevità dei capitoli, ai tanti dialoghi e allo stile essenziale, privo di eccessiva aggettivazione, si inserisce con una certa naturalezza nell’economia del romanzo. Opera che rivela elementi autobiografici anche nell’evidente polemica riguardo lo stato dei Sert, delle comunità di recupero, dei tanti pregiudizi che ancora condizionano un’efficace contrasto alle tossicodipendenze. Di fatto auspicando ben altro approccio: “Maria stava usando il recupero della dignità come fattore terapeutico” (pag. 138). E senza dimenticare l’ambientazione, ovvero il Lazio, il litorale romano e Genova, la città natale della scrittrice.
La peculiarità del romanzo, almeno se inteso come “giallo”, si rivela anche con la presenza di due brevi prologhi che, al momento di svelare l’assassino, si scopriranno avvenuti in tempi molto diversi. La scelta di accostare diversi livelli temporali, peraltro giustapposti senza il rischio che il lettore si confonda, amplifica quel che di onirico presente in un romanzo altrimenti caratterizzato un più frequente realismo, soprattutto quando si tratta di descrivere le distorsioni morali dei personaggi. Il finale in qualche modo irrisolto, almeno se considerato dal lato della giustizia ufficiale, e soprattutto caratterizzato da un lucido pessimismo, riconduce il romanzo di Giovanna Repetto nel solco del noir. Il genere inevitabilmente più congeniale quando ad un mistero si accompagnano drammi personali e drammi sociali.
Edizione esaminata e brevi note
Giovanna Repetto (Genova 1945), scrittrice e psicologa, vive a Roma. Ha pubblicato La banda di Boscobruno (Mobydick 1999), entrato nella cinquina dei finalisti del premio “Bancarellino” di Pontremoli; Palude, abbracciami! (Mobydick 2000), vincitore del premio “Navile Città di Bologna” come miglior romanzo per ragazzi; La gente immobiliare e Cartoline da Marsiglia (Mobydick 2002 e 2004). È redattrice della rivista letteraria online “Il Paradiso degli Orchi”.
Giovanna Repetto, “L’alibi della vittima”, Gargoyle, Roma 2014, pag. 333
Luca Menichetti. Lankelot, marzo 2014
Follow Us