Baku, 23 maggio 2015
I primi timidi raggi del sole che filtrano attraverso la tenda ci svegliano dolcemente. Dato il notevole sforzo fisico dei giorni precedenti speravo che oggi sarebbe stato dedicato semplicemente al viaggio di ritorno a Baku, ma Cavid ha altri piani. Vuole esplorare la zone vicino ad Afurca ed in particolare desidera vedere se riesce a trovare un sentiero che porti fin sopra la cascata. Un’idea che in condizioni normali mi ecciterebbe molto, ma che al momento mi fa solo sentire ancora più stanco.
Lui mi vede titubante e allora per la colazione mi promette qualcosa che mi ridarà energia. Accende il suo fornello, comincia a sciogliere il resto del burro rimasto dalla sera prima e poi ci aggiunge l’ingrediente segreto: il latte condensato. Io ho già avuto modo di assaggiarlo quando ero negli scout e mi ricordo che si tratta di una specie di crema di colore lattiginoso, dal sapore molto dolce e che in effetti sarebbe capace di rimettere in piedi pure un cavallo stremato. Unirlo a del burro fuso penso lo faccia rientrare nella categoria delle sostanze dopanti. Con l’aiuto di qualche galletta secca che Cavid ha conservato dalla sua permanenza nell’esercito riesco a mandare giù la mia porzione e alla fine sento una strana sensazione, la stanchezza è rimasta, ma capisco di avere le energie necessarie per affrontare qualche altro chilometro di camminata.
Finita la colazione ci rifacciamo gli zaini e smontiamo la tenda. Nel frattempo arriva sul prato un gruppo di ragazzi e di ragazze con la divisa scolastica accompagnati dal maestro. I ragazzi si mettono a giocare a calcio sul prato, mentre le ragazze in disparte li osservano. Cavid parla col maestro e scopre che si tratta dell’ora di educazione fisica.
Lasciamo gli zaini al ristorante là vicino e torniamo alla cascata dove ieri abbiamo fatto il bagno, poco dopo troviamo un ripidissimo sentiero che sembra essere stato creato dal passaggio delle pecore piuttosto che da esseri umani. Lo seguiamo e ci ritroviamo su un pendio talmente ripido che dobbiamo avanzare a quattro mani, facendo attenzione perché le foglie secche che ci sono sul terreno sono molto scivolose. Decidiamo di deviare e raggiungiamo un piccolo altopiano di fianco ad una strada bianca: era quello che Cavid stava cercando. Il maestro infatti gli ha detto che sopra la cascata, se si segue il torrente, ce n’è una seconda. In effetti ora siamo più in alto e in poco tempo troviamo il torrente. Lasciamo la strada sterrata e cominciamo a risalirlo. Ci facciamo strada tra argini franosi, alberi caduti e rami spinosi, finchè non arriviamo ad un specie di gola che si chiude un una ripida parete di circa venti metri da cui scende appunto una piccola cascata.
In alto vediamo una porzione di cielo, le pareti della gola sono coperte da un verde strato di muschio umido. Sembra quasi di trovarsi in uno di quei luoghi sperduti che si vedono spesso nei film ambientati nella foresta amazzonica. Rimango stupito dalla semplice bellezza di questo sito, ma Cavid ha fretta e ora che ha trovato una nuova meta in cui portare i suoi turisti vuole continuare ad esplorare. Torniamo indietro e scendiamo seguendo la strada bianca. Dove questa si ricongiunge con la strada principale che porta ad Afurca troviamo un vecchio contadino con cui Cavid scambia qualche parola. Gli spiega che aggirando la cascata dall’altro lato si può arrivare ad un bell’ altopiano.
Era questa l’informazione che Cavid stava cercando. Torniamo ad Afurca e imbocchiamo una strada che ci porta sul versante a sinistra della cascata. Qui troviamo un gruppetto di tre case che fanno ancora parte del villaggio di Afurca. Una signora a bordo strada sta riposando di fianco ad una tanica d’acqua di almeno venti litri che sta evidentemente portando a casa sua. Senza nemmeno pensarci Cavid si avvicina, prende la tanica e la porta fino in cima alla salita. Una cosa a cui io non avevo nemmeno pensato e che dimostra la mia idea secondo cui, nei paesi in via di sviluppo, esiste ancora una cultura dell’aiuto e della gentilezza che molto spesso non esiste più nella nostra società.
Superato il paese la strada continua a salire senza pietà. La stanchezza accumulata ormai si fa sentire nonostante la colazione iper energetica e in più non ci siamo nemmeno portati dell’acqua, errore abbastana grossolano da parte nostra. Con la scusa del guardare un bel paesaggio riesco a guadagnare cinque minuti di pausa, ma Cavid sembra avere ancora fretta. Continuiamo a camminare per almeno un’ora, sempre in salita o in piano, arrivando così all’altopiano segnalatoci dal vecchio contadino. Un piccolo torrente scorre sul fondo e le colline intorno presentano solo una bassa vegetazione. Esausto mi siedo su un prato e con molta vergogna dichiaro a Cavid la mia intenzione di non andare oltre. Lui sembra capire e mi dice di aspettarmi là, mentre lui risale una collina per vedere com’è il paesaggio da lassù.
Non abbiamo incontrato né persone né abitazioni dal momento in cui abbiamo lasciato le tre case poco sopra Afurca e quella dove ci troviamo sembra in effetti una sorta di vallata nascosta e non abitata, perfetta per portarci dei turisti con una gita di un giorno da Baku, visto che Afurca si può raggiungere benissimo in tre ore di auto.
Quando Cavid torna iniziamo finalmente il ritorno. Se la salita si era rivelata difficile, la discesa non è migliore, stavolta devo pure fare attenzione a non scivolare e tutto l’acido lattico accumulato nelle gambe non mi rende facile il compito. Non so bene con quali energie, ma riesco ad arrivare alle tre case ancora sano. Qui Cavid intravede una vecchietta mezza gobba, come al solito chiede se può ricaricare il telefono e come al solito questo si traduce in un invito in casa. Casa che stavolta è davvero molto umile, a parte l’entrata dove ci si leva le scarpe, c’è solo una stanza con la stufa che funge da fornello, qualche mobiletto, un tavolo con delle sedie (una rarità da queste parti) e un letto matrimoniale. Tappeti per terra e alle pareti decorano la stanza, un paio di questi raffigurano animali del tutto estranei alla fauna locale come elefanti e leoni. I nostri ospiti sono una vispa coppia di vecchietti, lei porta un lungo vestito e ha la testa coperta da uno scialle. Lui porta una camicia, pantaloni della tuta ed un cappello. Sono entrambi piuttosto bassi e hanno i tratti etnici dei tati.
Insieme a loro ci sono i due nipotini tra gli otto e i dodici anni, che sembrano molto eccitati dalla nostra presenza. Come ormai d’abitudine, dopo qualche minuto arriva una teiera fumante accompagnata da pane fresco, formaggio di capra e burro. Il burro in particolare è molto buono e faccio i complimenti alla signora, la quale mi indica un mastello dietro di lei facendomi capire che l’ha fatto da poche ore. A quanto pare i loro due figli sono uno a Baku e uno in Russia, entrambi a lavorare. Quello che vive a Baku ha mandato i suoi figli a stare con i nonni per l’estate, ma capisco subito che questi due bambini non devono venire da una famiglia molto ricca.
Il più piccolo dei due, più sfacciato dell’altro, osserva con estrema curiosità il mio marsupio. Lo metto sul tavolo e gli faccio vedere il contenuto: il telefono spento, il portafoglio, un pezzo di cioccolata e la macchina fotografica. Quest’ultima la tiro fuori dalla custodia, la accendo e gliela mostro. Quando capisce di cosa si tratta insiste per fare lui delle foto e comincia così a fotografare la stanza, i nonni, e pure me. L’altro, il più grande, lo guarda facendo finta di non essere interessato quasi per dimostrare che lui è più adulto e maturo, ma si capisce benissimo che vorrebbe scattare qualche foto pure lui. Dopo la macchina fotografica il bambino viene incuriosito dai miei occhiali da sole, che non esita a provare. Io alla fine non resisto alla tentazione, mi siedo tra loro due e ci scatto una foto, intoducendo così nelle vite di questi bambini il deprecabile concetto di selfie. Si è fatta ormai l’una e noi abbiamo ancora della strada da fare, salutiamo calorosamente i nostri ospiti e io lascio il resto della mia cioccolata ai bambini, provando quella che forse era la stessa sensazione che provavano i soldati americani quando, sbarcati nell’Italia appena liberata, distribuivano cibo e bevande. Mi faccio fare la solita foto con tutta la famiglia e poi ripartiamo. I bambini ci accompagnano per un tratto e poi ci salutano. In mezz’ora raggiungiamo il ristorante e recuperiamo gli zaini.
Cominciamo a percorrere la strada sterrata che porta fino a quella del fondovalle e che corre parallela al torrente. Per via troviamo qualche gruppo di abitanti di Baku venuti fin qui per un pic nic. Un pastore locale col suo cavallo ci sorpassa e, vedendoci indecisi sulla strada da prendere, rallenta visibilmente in modo da permetterci di seguirlo fino al fondovalle. Arrivati alla congiunzione della due strade troviamo un paio di taxi. Per tornare a Baku dobbiamo raggiungere la città di Quba, che si trova a circa mezz’ora in auto e da cui partono le marshrutke per la capitale. I tassisti propongono una cifra che non piace a Cavid, il quale rifiuta e si rimette in cammino. Stanco come sono io sarei anche stato contento di pagare. Cominciamo a camminare lungo la larga strada cercando di farci raccogliere dalle poche auto che passano. Sfortunatamente la maggior parte va nella direzione sbagliata e le altre sono già piene.
Ad un certo punto una delle mie paure più radicate quando viaggio per l’Azerbaigian si materializza: un’auto della polizia ci passa vicino e subito si ferma. Il poliziotto apre la portiera e ci fa segno di andare da lui. Due giovani stanchi, sporchi e con uno zaino da trekking che camminano per strada facendo autostop sono decisamente troppo inusuali per non attirare l’attenzione delle pedanti forze dell’ordine azerbaigiane. Ci chiede i documenti, io, viste le mie precedenti esperienze, sono preparato e ho con me il passaporto, il permesso di soggiorno e perfino la tessera dell’università. Il poliziotto sembra quasi deluso di non aver fermato una spia e di non potermi incastrare per qualcosa, fa un paio di chiamate che confermano la mia identità e mi ridà i documenti. Cavid invece non ha portato con sé i suoi documenti. Discute animatamente con il poliziotto il quale sembra inflessibile e vuole portare Cavid alla centrale giù a Quba dove lo possono identificare, ma gli fa capire che dovrà passare la notte là. Ad un certo punto però ci fa intendere che se gli allunghiamo cinque manat può farci passare senza problemi. La corruzione delle forze dell’ordine è piuttosto comune in molti paesi. Cavid si rifiuta di darglieli e continua ad insistere. Passa mezz’ora in cui il poliziotto si consulta con dei passanti che sembrano essere suoi amici. Stanco come sono vorrei solo arrivare a Baku il prima possibile, ma mi sento pure piuttosto irritabile e la voglia di prendere il poliziotto per il collo e strozzarlo sale di minuto in minuto. Alla fine Cavid lo convince e questo scocciatore ci lascia andare.
Quest’ennesimo confronto con l’autorità locale mi lascia ancora più provato di prima, per fortuna poco dopo arriva un’auto che si ferma e ci fa salire. Si tratta ovviamente di una vecchia e scasatissima Lada 4×4, dentro ci sono due uomini: il guidatore è piuttosto anziano, parla con il suo amico a voce altissima e con un timbro fastidiosamente acuto. Il sedile del passeggero inoltre è mezzo rotto e cade all’indietro, esattamente sulle mie gambe, che sono costretto così a tenere allargate. La strada passa per molti piccoli paesini e piano piano ci riporta in pianura. Purtroppo non riesco a godermela appieno, perché sono preso da un terribile attacco di sonno e il suono della voce del guidatore mi colpisce le orecchie come una fastidiosa zanzara di sottofondo.
Ci lasciano nel bazar di Quba, gli diamo qualche soldo per il passaggio e poi c’incamminiamo verso la stazione delle marshrutke. Ne troviamo una che parte dopo mezz’ora e ci sediamo ad aspettare. Il viaggio è abbastanza rapido e indolore. Cerco di dormire un po’ per recuperare le forze anche perché la mia coinquilina mi ha appena scritto che stasera ha organizzato una specie di festa-cena a casa nostra. Spero almeno di avere il tempo per lavarmi perché puzzo terribilmente.
Si conclude così una bellissima esperienza nata quasi per caso e che mi ha portato in luoghi che da solo non sarei mai riuscito a vedere. Ho avuto modo di conoscere una persona veramente particolare che mi ha aiutato molto a capire di più sull’Azerbaigian e sulla sua gente. Lascio le montagne del Caucaso con una sensazione di vuoto interiore, ma anche di grande soddisfazione: il bilancio di tre giorni è di circa sessanta chilometri percorsi a piedi, nove villaggi di montagna attraversati e sei famiglie che ci hanno ospitato con grande disponibilità senza chiedere nulla in cambio se non un sorriso. Ma il numero più impressionante è di sicuro quello delle tazze di tè bevute, a conti fatti ben ventiquattro.
Francesco Ricapito Agosto 2015
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