Wilson Colin

La gabbia di vetro

Pubblicato il: 24 Gennaio 2019

La definizione di “libro di culto” è stata spesso attribuita ad opere davvero trascurabili – probabilmente un mero espediente pubblicitario – ma quando si parla di un libro di Colin Wilson il “culto” è quasi d’obbligo, soprattutto se inteso come riscoperta di un autore anticonformista ingiustamente oscurato. “La gabbia di vetro” – romanzo pubblicato nel 1966 con il titolo “The Glass Cage: An Unconventional Detective Story” – risponde in pieno a questi canoni (“unconventional” appunto) e bene ha fatto la Carbonio editore a proporre per la prima volta in Italia questo “thriller psicologico” fuori da tutti gli schemi noti della cosiddetta letteratura di genere. Il motivo dell’anticonvenzionale è presto detto. Innanzitutto, pur in presenza di un fantomatico serial killer, sembrerebbe una forzatura catalogare “La gabbia di vetro” alla stregua di un poliziesco: non si conoscono i nomi delle vittime, non si sa chi siano, è vero che si legge qualcosa di raccapricciante – le condizioni dei cadaveri – ma solo per sentito dire, non esiste un vero e proprio detective, e forse alla fine non esiste neppure un colpevole ufficiale (questo però deve scoprirlo il lettore). Eppure di “thriller psicologico” possiamo comunque parlare: è un’indagine che prende vita non in virtù di misteri e di delitti subito ben definiti, semmai grazie a delle personalità a dir poco eccentriche. Detective per caso, l’antitesi perfetta di ogni detective conosciuto è uno dei maggiori esperti mondiali del poeta William Blake, ovvero il giovane studioso Damon Reade, che vive isolato nelle campagne del Lake District. Le sue conoscenze infatti potrebbero risultare utili alle forze dell’ordine – lo va a trovare  Lund del distretto di Carlisle, uno dei pochi poliziotti presenti nel romanzo – perché, come riferito dal sergente ad un inconsapevole Reade, Londra è funestata da orribili omicidi: corpi smembrati e non molto distanti dai luoghi del delitto, lì vicino al Tamigi, versi di William Blake scritti sui muri. Peraltro fin dall’incontro col sergente Lund, persona concreta e ben poco intellettuale, si può cogliere la diversa concezione di indagine di un poliziotto autentico rispetto quella di chi non contempla la cattura del colpevole come priorità assoluta: “Pensò, con un tocco di tristezza: Non gliene importa niente, per lui non è una tragedia, è solo un crimine’”(pp.15). Un’indagine che non carbura immediatamente e che per un po’ rimane sullo sfondo, mentre Damon Reade, in attesa di recarsi nella città tentacolare, mostra il suo carattere “verginale”: ospite dell’amico libraio Urien Lewis, si fidanza, a dir poco perplesso, con la sua giovanissima nipote Sarah, forse sottovalutando il rapporto morboso che lega la ragazza al suo tutore, osservato come fosse una sorta di grosso coccodrillo, non ultimo un “accenno di potere e violenza contenuti nel volto” (pp.35).

È poi a Londra che Damon Reade proverà a dimostrare le sue doti investigative, pur senza grandi convinzioni. Quello della metropoli è mondo che lo mette a disagio, troppo caotico, invischiato suo malgrado tra ragazze facili, loschi figuri, pericolosi bassifondi, conoscenti tuttofare. Potremmo definirla un’immersione nella concretezza e nell’eccesso insieme all’amico musicista Kit Butler, ma Damon, ansioso di tornare al suo eremitaggio, non si fa troppo condizionare: le deduzioni di investigatore improvvisato somigliano moltissimo a considerazioni filosofiche e psicologiche: “Capite il mio punto di vista? L’uomo limita deliberatamente la propria coscienza. Lo spaventerebbe la consapevolezza di questi vasti spazi di coscienza per tutto il tempo […] Vedete, la droga e le bevande sono un modo per renderci consapevoli della giungla al di fuori della coscienza ordinaria. L’omicidio è un altro. Quando le persone impazziscono, in realtà stanno vedendo più in profondità della maggior parte di noi. La follia non è basata sull’illusione; è basata sulla verità” (pp.118).

Niente però di fine a se stesso perché, proprio grazie alla sensibilità di intellettuale esperto del mistico Blake, Damon arriva ad individuare un concreto profilo di serial killer: “Se è così penso di aver quasi ragione nel ritenere che sia un potenziale suicida. Credo che chiunque commetta un omicidio possegga un forte impulso suicida. La sanità mentale umana dipende dalla sensazione di sicurezza, sicurezza fisica. Si basa sul presupposto che sarai ancora vivo fra dieci anni. Invece un uomo che annienta altri esseri umani a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro distrugge il suo stesso sentimento di immortalità. Sente che anche lui potrebbe venire eliminato con la stessa facilità. Ha svalutato la sua stessa vita (pp.135). Ed ancora più esplicitamente, col senno di poi: “Vedevo gli omicidi come una strana forma di suicidio” (pp.255).

Istinto, deduzioni che partono da molto lontano e un’idea decisamente poco ortodossa di delitto e castigo – “non è un criminale fino in fondo….e dovremmo dare alla parte non criminale la possibilità di prendere il sopravvento”, pp.194 –  portano quindi ad identificare come potenziale assassino un certo Gaylord Sundheim, un personaggio dal fisico possente, inizialmente molto cortese, sicuramente nevrotico, che col tempo sembra mostrare diverse personalità, e che poi si scoprirà animato da bisogni fisici irrefrenabili. Eppure Damon si convince che Gaylord non sia in grado di compiere azioni criminali: “Non riesco a immaginare la mentalità di un assassino che ammira Blake. È una specie di contraddizione In termini”. Un’idea destinata ad essere smentita? Un’eccessiva fiducia nelle virtù salvifiche dell’arte? Esiste qualche altro aspetto della personalità di Gaylord Sundheim ancora sconosciuto? Le incertezze sono motivate dall’osservazione puntuale di perversioni, di allarmanti dettagli che si mimetizzano tra tutto quello che sembra la normalità quotidiana, di comportamenti ossessivi che molto hanno a che fare con famiglie disfunzionali e con la mancanza di affetto, di un’ingordigia insaziabile che probabilmente trae origine da un passato oscuro e inconfessabile. Sono interrogativi per lo più inquietanti che alla fine troveranno una risposta, forse. Fatte queste premesse non bisogna pensare ad un romanzo complicato, faticoso: a rigore poca azione tipicamente poliziesca, molti dialoghi, molta filosofia, profondità di analisi psicologica e psicopatologica, evidenti citazioni letterarie, ma anche facilità di lettura, alcune descrizioni che sanno tanto di falsi indizi volti a ingannare il lettore, dosi abbondanti di ironia british, personaggi in gran parte bizzarri che tengono desta l’attenzione.

Potremmo quindi ricordare le parole Georges Bataille sul poeta mistico che ha ispirato  il racconto di Colin Wilson – “Blake non fu un filosofo a nessun titolo, ma ha dichiarato ciò che è essenziale con un vigore ed anzi con una precisione che la filosofia può invidiargli” –  in questo caso con un’ulteriore e inattesa postilla: con un vigore che anche il romanzo poliziesco può invidiargli.

Edizione esaminata e brevi note

Colin Wilson, (Leicester, 1931 – Cornovaglia, 2013) è stato uno scrittore britannico. Le opere di Wilson comprendono saggi nell’ambito della psicologia, archeologia, letteratura e arte, nonché romanzi di fantascienza, horror e gialli. Nel 1956  pubblicò “The Outsider” dove analizzava il ruolo dei cosiddetti “outsider” nel campo della letteratura e della cultura affrontando alcuni personaggi di rilievo, indagandoli sotto l’aspetto dell’alienazione sociale

Colin Wilson, “La gabbia di vetro”, Carbonio Editore (collana “Cielo stellato”), Milano 2018, pp. 265. Traduzione di Nicola Manuppelli.

Luca Menichetti. Lankenauta, gennaio 2019