Villaggio di Gokhur, valle di Sudur Martedì 26 maggio 2015 Ore 22.30
Arriviamo in cima alla strada a piedi, cercando di evitare le numerose pozzanghere fangose e troviamo una bella casa a due piani circondata da un recinto per le mucche e da un’alta pila di letame compressato in tanti piccoli blocchi squadrati. Da quel che so costituisce il combustibile per il fuoco vista la mancanza di legno e la difficoltà a trasportarlo fino a qui. Non so di preciso quanti chilometri abbiamo percorso, ma è stata necessaria un’ora di auto. Ad attenderci davanti alla casa c’è un signore sulla sessantina con la moglie, sua coetanea. Anche loro, come Elshad, hanno la pelle piuttosto chiara e lineamenti che ricordano molto più quelli dei russi o degli europei dell’est che degli azeri. Gentilmente ci fanno salire al primo piano. Com’è usanza in Azerbaigian, non si entra in casa, propria o altrui, con le scarpe e quindi ce le leviamo ai piedi della traballante scala di legno. Il piano superiore è costituito da due stanze dal pavimento irregolare e coperto di tappeti, alcuni dei quali sono pure appesi alle pareti. Vari materassi impilati sono addossati al muro e probabilmente costituiranno i nostri letti, per terra è stata posizionata una tovaglia: ci hanno infatti preparato il pranzo. Per primo ci viene servito il tè, seguito da pane fatto in casa, burro fresco e dal tipico formaggio di capra semiliquido che ho già avuto modo di gustare in questa regione.
Anche il pane è quello tipico della zona e si caratterizza per essere piatto, sottile. Viene inoltre bucherellato con una forchetta per favorirne la cottura. È molto curioso vedere come in ogni parte dell’Azerbaigian il pane abbia formati diversi. Forse è un pochino duro per i nostri gusti, ma si sposa benissimo con il burro e il formaggio. Poco dopo la signora ci porta una frittata appena cotta. Cibo semplice ma di qualità eccellente, che personalmente apprezzo molto, anche lo spagnolo sembra gradire, al contrario i tedeschi paiono un po’ delusi. Fuori ha cominciato a piovere in modo più insistente e quindi abbiamo tutto il tempo di mangiare con calma e di sorseggiare il nostro tè, che come digestivo risulta veramente efficace. Quando sembra che il tempo stia migliorando Cavid ci dice che possiamo andare con la macchina a visitare il villaggio là vicino e quello abbandonato che si trova subito dopo. Usciamo e ripartiamo a tutta velocità seguendo la strada. Se pensiamo alla vallata in cui ci troviamo come ad una U, la casa dove abbiamo mangiato si trova sulla destra, nel punto in cui la linea dritta finisce e comincia la parte curva. Questa parte curva rappresenta appunto il limite della vallata, dietro alla quale vediamo stagliarsi il possente monte Shahdag, (letteralmente “montagna dello shah”), oggi reso famoso perché alle sue pendici, dal lato opposto rispetto a quello dove ci troviamo noi, è stato costruito un grande complesso sciistico. La strada scende fino allo stretto fondovalle, dove scorre un piccolo torrente, per poi risalire sull’altro versante e arrivare fino al villaggio. Facciamo una sosta in quella che, sempre seguendo la metafora della U, è la parte più in basso. Davanti a noi vediamo la valle in tutta la sua lunghezza e ne restiamo veramente affascinati. Una piccola, ma alta cascata sul versante destro contribuisce ad alimentare il torrente. Mentre noi siamo occupati a fare foto al paesaggio, un abitante del luogo ci passa accanto in sella al suo cavallo, che qui è ancora usato come mezzo di trasporto e non solo come attività sportiva o ricreativa.
Mi rammarico di non aver mai preso lezioni di fotografia, quando mi rendo conto di non saper rendere con l’apparecchio fotografico la suggestione di ciò che osservo nella realtà. Ripartiamo, man mano che ci avviciniamo al villaggio notiamo i segni della presenza umana: muretti a secco, campi coltivati e tracce del passaggio di qualche gregge. Attraversiamo il villaggio, che Cavid ci dice visiteremo più tardi: la prima meta per ora è il borgo abbandonato, circa due chilometri oltre. Elshad parcheggia in un prato a metà strada, Cavid ha infatti deciso che ci farebbe bene fare una camminata. Sopra di noi un bellissimo cavallo bruno, trattenuto da una corda, trotta per il prato. Più in lontananza vediamo un complesso di edifici piuttosto moderni: si tratta di una caserma. Ormai ho imparato a non stupirmi più della presenza di militari o di forze dell’ordine negli angoli più remoti dell’Azerbaigian, d’altronde in questo caso ci troviamo in un territorio di confine ed è comprensibile. Cavid mi fa vedere che la strada che porta alla caserma poi continua e sparisce in direzione del fiume che vediamo in lontananza davanti a noi. Quel fiume è il confine e quella strada è chiusa per tutti tranne che per gli abitanti della zona, che hanno preso accordi speciali con i militari. Cominciamo a camminare verso il villaggio abbandonato, la strada è in vista della caserma e mi viene il dubbio che un gruppo come il nostro debba apparire piuttosto sospetto alla guarnigione. Non sarei troppo sorpreso se prima della fine giornata arrivasse qualche militare a chiederci i documenti. La strada segue una grande rientranza laterale della vallata e quindi scende, passa sopra un torrente affluente di quello al centro della valle e poi risale verso il paese. Visto che ormai non piove più e che la temperatura è piuttosto gradevole la passeggiata è piacevole. Il villaggio è un grumo di case dall’aspetto decrepito, abbarbicate su un piccolo colle. Quando arriviamo scopriamo che in verità non è del tutto disabitato. Tre donne stanno tornando alle loro abitazioni, mentre un’altra ci guarda mentre stende i panni sul filo teso sopra la tettoia di lamiera che costituisce il tetto della sua casa.
Più avanti, un gruppetto di uomini se ne sta seduto sui gradini di una vecchia costruzione in rovina. Ci guardano con curiosità e chiedono a Elshad chi siamo. Lui sembra conoscere tutti e la cosa non mi sorprende, probabilmente nella vallata è così. Cavid ci racconta che molte case abbandonate sono veramente molto vecchie e che questo è uno degli insediamenti più antichi e isolati dell’Azerbaigian. Proseguendo poco oltre il villaggio arriviamo ad un altro colle che funge da belvedere sulla parte della vallata che ci siamo lasciati alle spalle e su quella che ci sta davanti. Una sinuosa curva che sembra essere il risultato di una lenta erosione da parte del torrente fa sbucare la valle su un zona più pianeggiante, dove si trova appunto il fiume del confine. Una strada corre sul versante sinistro e porta ad un villaggio che vediamo a malapena e che si trova nella zona pianeggiante dopo la fine della vallata. Cavid ci dice che là in genere stranieri e civili non residenti non possono andare e anche gli abitanti del luogo devono prima passare dalla caserma per far sapere del loro passaggio. Credo che queste misure siano adottate per evitare il contrabbando di merci illegali o l’emigrazione clandestina. Inoltre non è un mistero che le relazioni tra Azerbaigian e Russia abbiano dei periodici momenti di tensione che spesso hanno più conseguenze per le terre di confine. Passiamo una buona mezz’ora a fare foto e a goderci il panorama.
Elshad ad un certo punto si china a raccogliere dell’erba che poi ci porge dicendo di mangiarla. All’inizio penso che mi stia prendendo in giro però poi assaggiandola scopro che ha un buonissimo gusto di limone. Improvvisamente sentiamo un rumore di zoccoli provenire dalla strada e il mio timore si materializza davanti a noi: due soldati a cavallo arrivano a tutta velocità, scendono, salutano Cavid ed Elshad e con fare poco amichevole cominciano a fare domande. Cavid sembra tranquillo, ma dopo un po’ ci dice che dobbiamo ritornare alla macchina. Nel tragitto veniamo scortati da vicino dai due soldati. Una volta arrivati Cavid ci chiede di dargli i nostri passaporti. Sfortunatamente io sono l’unico ad averlo, gli altri l’hanno lasciato nella casa dove abbiamo mangiato. Tuttavia io ho un diverso tipo di problema: una settimana fa, mentre stavo tornando a casa dopo una serata con gli amici, sono stato aggredito da due ladri che mi hanno rubato il portafoglio, nel quale, oltre a patente, carta d’identità, tesserino sanitario e cento euro, c’era pure il permesso di soggiorno in Azerbaigian. Ciò mi ha creato non pochi disagi, ho dovuto posticipare un esame, passare giornate in compagnia dei poliziotti impegnati nelle indagini e soprattutto rinunciare ad un viaggio di due settimane in Iran, per cui avevo già prenotato i voli e procurato il visto. Senza permesso di soggiorno infatti non posso lasciare l’Azerbaigian e devo aspettare che me ne arrivi un duplicato, faccenda che necessita di due settimane di tempo. Ora con me ho solo il passaporto (al cui interno c’è solo il visto valido un mese con cui sono arrivato a settembre) e la fotocopia del vecchio permesso di soggiorno che mi hanno rubato. Spiego la situazione a Cavid e spero che la storia basti a non farmi passare dei guai. I soldati ci mettono una buona mezz’ora a sbrigare le loro pratiche. Prendono i nomi e i dati delle carte d’identità dei tedeschi e di Vicente. A me fanno qualche domanda in più e allora io provo a mostrargli anche la tessera dell’università, che sembra convincerli definitivamente che sto dicendo la verità. Fanno qualche chiamata a chissà chi, ma alla fine ci lasciano andare spiegandoci che loro sono obbligati a fare questi controlli alle persone che vengono qui. Noi risaliamo in macchina un pochino scossi da quest’esperienza. Ritorniamo verso il primo villaggio, dove ci fermiamo per una rapida passeggiata, nel frattempo il cielo si è aperto e il sole ha fatto capolino tra le nuvole. La strada principale del paese è stretta, fangosa e sconnessa, uno spiazzo tra le case è la “piazza” principale, qui, al riparo di una stretta tettoia alcuni uomini sono seduti ad un tavolino di legno a giocare a nard (una sorta di backgammon), spostando le pedine con la consueta violenza che, come ho notato diverse volte, contraddistingue i giocatori di tutto l’Azerbaigian. Li fotografo. Mi allontano e arrivo ad una piccola moschea dal tetto appuntito di colore verde. A parte il tetto non è molto diversa dalla case che la circondano. Là vicino noto che, sul retro di una casa, c’è una specie di estensione di legno lunga cinque metri e sorretta da una struttura pure di legno.
Questo crea uno spazio sotto al quale passa una stretta strada. Cavid mi dice che quello è il bagno della casa. In genere qui i bagni si trovano all’esterno e non sono altro che dei casotti di assi costruiti sopra a fosse probabilmente scavate a mano. Questa famiglia ha trovato un modo originale per avere la comodità del bagno quasi in casa. Ne rimango molto affascinato. Continuo a passeggiare lentamente tra le case. Nei giardini noto intere pile di letame compressato in forme rettangolari e messo fuori ad essiccare. Da un paio di case alcune donne mi guardano incuriosite. Visto il bel tempo decidiamo di tornare indietro fino al nostro alloggio a piedi. Ritorniamo sui nostri passi e ci godiamo il silenzio e la calma del crepuscolo.
Un bambino con una bicicletta ci segue per un po’ e poi torna indietro. Arriviamo rapidamente. Ad aspettarci oltre al padrone di casa c’è suo figlio e un amico. Tutti e tre indossano un maglione con sopra una giacca e un cappello e ci sorridono cordialmente. Il sole tramonta proprio di fronte alla casa, sparendo dietro al crinale della vallata e creando suggestivi riflessi. Dopo un breve crepuscolo, l’oscurità non tarda ad arrivare. Da queste parti, come in genere in montagna, si cena presto. La signora ci chiama all’interno: stavolta si mangia al piano terra. Appena entrati ci si trova nella cucina, una stanza piuttosto spaziosa ma assai vuota: a parte qualche mobile con gli utensili e una tanica dell’acqua non c’è molto altro. La sala da pranzo ha lo stesso stile semplice del piano superiore ed è qui che si trova la stufa, usata anche per cucinare. Si mangia seduti su cuscini o su bassi sgabelli e quindi il tavolo è alto circa trenta centimetri. Io mi metto in un angolo della stanza così posso appoggiare la schiena alla parete. La prima cosa che ci viene servita è ovviamente il tè, ma dopo poco vediamo che la signora preleva dal fornello una teglia rotonda di almeno cinquanta centimetri di diametro. Con un gesto rapido e sicuro la ribalta sopra un tagliere di legno e vediamo allora che ne scende quella che sembra una gigantesca focaccia dall’aspetto e dal profumo molto invitanti. Cavid mi dice che si tratta di un piatto tipico di queste valli e comincia a tagliarcene delle fette scandalosamente grandi. Dentro vedo che la focaccia è ripiena di patate, cipolle e qualche erba che non riesco a riconoscere. Si tratta fondamentalmente di una grande torta salata. Il sapore è veramente ottimo, mi pare di riconoscere pure un leggero gusto di formaggio e pepe. Un piatto semplice e, se vogliamo, povero, come quelli abbiamo assaggiato a pranzo, ma reso ottimo dalla qualità dei prodotti. Anche Elshad si è fermato a cena e così siamo in undici a tavola e riusciamo a malapena a finire tutta la focaccia.
Tuttavia la signora non sembra ancora sodddisfatta e così si alza e dal fornello preleva un’altra teglia gigante che nessuno di noi aveva notato prima. Ripete la stessa operazione con il tagliere e serve la seconda focaccia sul tavolo. Io riesco a mangiarne un’altra fettina, con somma gioia della signora, ma poi mi arrendo. Mentre sorseggio del tè per mandare giù la focaccia, con l’aiuto di Cavid riesco a scambiare qualche parola con il padrone di casa. Scopro che suo figlio, quello che sta cenando con noi e che avrà circa quarant’anni , è sposato e vive nella valle vicina con la famiglia. Tutti in queste vallate per mantenersi hanno qualche campo che coltivano principalmente a patate e cipolle e magari qualche animale come vacche o pecore. Cavid parla con loro in azero, ma tra di loro parlano in un’altra lingua, ossia il lezgino. I lezgini sono un popolo che sembra discenda dagli abitanti del Daghestan meridionale dell’Età del Bronzo. Lo stesso termine “lezgino” non è molto preciso e nei secoli scorsi è stato spesso utilizzato per indicare tutti i popoli che abitavano queste regioni, bisogna infatti ricordarsi che il Caucaso è un crogiolo incredibile di popoli, etnie, lingue e tradizioni tra cui molto spesso è facile fare confusione. I lezgini sono oggi una delle principali minoranze etniche dell’Azerbaigian e abitano quasi esclusivamente nelle regioni settentrionali del paese. Tuttavia il maggior numero di lezgini si trova in Russia e in particolare in Daghestan, nelle zone di confine con l’Azerbaigian. Sono inoltre presenti altre comunità lezgine in altri paesi dell’Asia Centrale e dell’ex Unione Sovietica, questo soprattutto a causa delle deportazioni forzate attuate da Stalin. La lingua lezgina è ancora parlata tra queste persone ed è anche insegnata nelle scuole. Così come gli azeri, i lezghini sono musulmani, ma al contrario di questi, la maggioranza è sunnita e non sciita. Cavid mi spiega che anche oggi molto spesso i lezgini sono discriminati e in Azerbaigian risulta più difficile per loro trovare lavoro o ottenere terreni per le coltivazioni. Negli anni il governo ha adottato alcune misure per migliorare le loro condizioni, ma non sono state sufficienti e Cavid aggiunge uno spunto molto interessante: in Daghestan, a pochi chilometri da qui, i lezgini sono trattati decisamente meglio e per la Russia sarebbe abbastanza facile fomentare sentimenti indipendentisti aventi l’obiettivo di portare questa parte di territorio sotto il loro controllo. Un’ipotesi che, dopo i fatti in Crimea, non sembra improbabile. Elshad, anche se conosce poche parole in inglese ma parla bene il russo, il lezgino e l’azerbaigiano, sembra essere d’accordo e aggiunge che lui passa regolarmente il confine per andare a comprare o vendere vettovaglie in Russia. Sono considerazioni molto interessanti e che mi colpiscono molto. Sapevo della presenza di minoranze in Azerbaigian, ma ora che Cavid mi ha spiegato come stanno le cose vedo le persone che mi stanno davanti sotto una luce diversa. Capisco bene come mai mi siano sembrati fisicamente così diversi dagli azeri. Guardandoli noto in loro molta dignità, un orgoglio probabilmente tramandato dai loro avi, i quali per decenni hanno combattuto contro conquistatori provenienti da diverse terre, contribuendo così a costituire il mito del montanaro caucasico, stoico ed indomito combattente per la libertà della sua terra e del suo popolo. Oggi la lotta armata, almeno in Azerbaigian, si è fortunatamente fermata, ma le sfide che queste persone devono affrontare sono ardue. Guardandoli mi convinco di trovarmi davanti ad un popolo fiero e che ha fatto della lotta per la sua sopravvivenza una caratteristica dei suoi geni. Tra i miei compagni di viaggio, solo io e lo spagnolo sembriamo interessati a questi discorsi, i tedeschi appaiono solo molto stanchi dalla giornata appena trascorsa. Cavid ci porta fuori per vedere le stelle e siccome per lui una serata è sprecata se non si accende un fuoco, comincia a raccogliere qualche ramo qua e là. Dopo pochi minuti un piccolo fuoco scoppietta allegro nel cortile della casa. Il cielo è sereno e brillano molte stelle, a parte qualche fioca luce proveniente dal villaggio non c’è nessun tipo d’inquinamento luminoso. Sento pure io di essere stanco e nonostante siano solo le ventidue e trenta decidiamo di comune accordo di andare a letto. Nella stanza al piano superiore sono stati disposti per terra dei materassi con pesanti piumoni e giganteschi cuscini. Sono straordinariamente comodi e caldi e proteggono bene dal freddo della stanza.
Per approfondire:
https://it.wikipedia.org/wiki/Lezgini
Francesco Ricapito Ottobre 2015
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