“A quell’età, un ragazzino, dimentica presto tutto o quasi tutto, specialmente le cose spiacevoli” (pp.63). Questa la voce narrante presente nella prima parte del romanzo “A bocca chiusa”, che probabilmente, nel linguaggio di un’autentica critica letteraria, potrebbe venire ricondotta alla categoria di un narratore “interno non onnisciente”. Una prima persona non onnisciente e, nel caso specifico, ignara del futuro. Da lì a poco al ragazzino narratore e a noi lettori sarà infatti svelato il significato – tragico e raccapricciante – del titolo “A bocca chiusa”. Le pagine che precedono pertanto rappresentano una lunga, forse fin troppo lunga, premessa al crollo fisico e mentale del giovane protagonista; e poi subito a seguire il racconto di un sopravvissuto e del suo destino omicida, contrassegnato da una apprezzabile essenzialità di stile e di contenuto.
I protagonisti, le comparse, i luoghi sono proposti con l’idea di mettere a nudo la genesi di un crimine, in cui il realismo, incentrato sulle privazioni di una famiglia disfunzionale, si accompagna sempre ad un disagio psichico, da un lato insistendo con uno scenario di tangibile squallore, dall’altro evidenziando le profonde debolezze di chi subisce (la madre, la nonna) e l’abiezione di chi è fuori controllo (il nonno). Possiamo intuire la periferia, l’ambiente popolare, ma poco altro: chi parla e chi ascolta non ha un nome e nemmeno un domicilio ben definito. Sappiamo invece molto di più di una degradazione fisica e morale che tutto circonda e che soprattutto si fa contagiosa. Potremmo quindi definirlo racconto di una vera e propria infezione di follia: la storia di un preadolescente cresciuto da una madre sola, costretto a convivere con un nonno anziano, frustrato, di giorno in giorno sempre più incattivito, rabbioso, prossimo a trasformarsi in una sorta di orco violento. Quando poi lo stesso ambiente esterno alla famiglia – ad esempio amici che non sono tali o che hanno una distorta concezione di amicizia – si rivelerà una trappola tale da condurre a degli abusi, la reazione dell’adulto ormai interamente perso nella sua follia, in contesto di desolazione e degrado, sconosciuta la comprensione e la solidarietà, non si farà attendere: l’esito sarà prima cruento e da lì a poco le privazioni del sopravvissuto matureranno rapidamente in evidenti disturbi della personalità. Ereditando così la vocazione al crimine violento.
Dal punto di vista stilistico l’aspetto che forse potrà balzare agli occhi del lettore è proprio l’apparente cambiamento di prospettiva della narrazione. Una prima parte in cui, come anticipato, le parole, raccolte in tempo reale, sembrano quelle del ragazzino ancora in attesa di “accogliere il seme del male”, a cavallo tra le ingenuità di un giovanissimo e la consapevolezza di uno squilibrio mentale nascente. L’ottica di un protagonista bambino, un procedere apparentemente lucido, ma lo scoppio di violenza a lungo covato svela che siamo in presenza di una sorta di “narrazione impossibile” che peraltro non è affatto sconosciuta alla letteratura contemporanea. Non siamo proprio dalle parti del flusso di coscienza, a volte prerogativa di narratori che non potrebbero proprio narrare – qualcuno potrà ricordare il celeberrimo racconto schnitzleriano di una probabile suicida – ma sicuramente nel romanzo di Bonazzi le differenziazioni note che riguardano la prospettiva della voce narrante, almeno di primo acchito, tendono a sfumare,
Successivamente all’avvenimento irrimediabile della “bocca chiusa”, ecco una seconda parte dove la terza persona, uno sguardo solo teoricamente più distaccato, incentiva lo straniamento già in atto; e quindi mostra il protagonista delirante, imprigionato nei suoi limiti invalicabili, dentro strutture lavorative e abitative che sanno molto di “istituzioni totali”, ormai perso nella sua follia, di fatto contagiato dal suo carnefice. È vero che la creatività dell’autore – lo conferma lo stesso Bonazzi intervistato all’indomani della pubblicazione di “A bocca chiusa” – al momento si è caratterizzata spesso dando gran rilievo a “l’incomunicabilità del contemporaneo”, nonché ai disastri di una “società iperconnessa e alienante al tempo stesso” (thrillernord.it), ma questo non ha voluto dire non mettere in risalto altri aspetti forse più accattivanti per il grande pubblico dei lettori. Bonazzi martella ripetutamente sul disagio e sulle distorsioni fisiche e mentali dei protagonisti e, nel contempo, con la maturazione del disagio mentale, rappresentato anche da sogni surreali e inquietanti, poi con la discesa nella totale alienazione, la narrazione si arricchisce alla fine di elementi noir, se non di una sorta di colpo di scena. Un epilogo senza alcun lieto fine (con quelle premesse non c’era da aspettarsi altrimenti), quasi a voler chiudere un cerchio: da abuso a abuso ed infine una sorta di vendetta per interposta persona o, come scoprirà il lettore, avendo presente l’identità della vittima, “quasi” interposta.
Edizione esaminata e brevi note
Stefano Bonazzi, nasce a Ferrara nel 1983. Di professione webmaster e grafico pubblicitario, realizza composizioni e fotografie ispirate al mondo dell’arte surrealista. Le sue opere sono state esposte, oltre che in Italia, a Londra, Miami, Seul, Monaco. Il suo primo romanzo, A bocca chiusa, è stato pubblicato la prima volta nel 2014 da Newton Compton.
Stefano Bonazzi, A bocca chiusa, Fernandel, Ravenna 2019, pp. 256.
Luca Menichetti. Lankenauta, ottobre 2019
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