La citazione che precede il racconto di Eugenia Rico – “Scrivere delle cose più oscure è un atto ottimista, perché implica la loro conquista” – è attribuita a Jean-Paul Sartre, considerato il massimo esponente dell’esistenzialismo, corrente di pensiero che ha avuto molto a che fare con l’idea del vuoto della condizione umana e della sua solitudine di fronte alla morte. Tutti elementi che preannuncerebbero una disperazione senza fine; ma la frase di Sartre, grazie alle parole “ottimismo” e “conquista”, ci fa pensare ad altro e infatti il romanzo “La morte bianca” lo possiamo leggere come un mémoir – la presenza di una “verità emotiva” fa preferire il termine a biografia – in cui la coscienza della precarietà, della vulnerabilità diventa il filo conduttore di una sorta di elegia contemporanea, di un percorso non scontato e di una “ricerca di senso”: “Davanti al mio stupore tutto continuò come prima e lui restò solo dentro di me” (pp.16). La narratrice infatti è giovanissima quando muore, ad appena sedici anni, suo fratello Germán (per annegamento, ma luoghi e circostanze di fatto sono soltanto evocati, volutamente indeterminati); e allora il monologo e il ricordo, presenti vicende che sembrano quasi anticipare la tragedia, diventano ricerca di significati imprevisti, certo non semplice disperazione e mestizia per una scomparsa prematura. Da questo punto di vista l’autrice, in più occasioni, ha inteso rivelare il senso più profondo della sua opera: “Questo può sembrare un libro sulla morte, ma è un libro sulla vita” (pp.45). Una struttura narrativa non del tutto lineare, come del resto non sono lineari i ricordi che compaiono quando meno te lo aspetti, mentre, insistendo con un certo tono impressionistico, la prosa dell’autrice ambisce quanto possibile a semplicità e leggerezza, nonostante le manifestazioni quasi patologiche, esagerate di dolore – forse uno degli elementi meno felici della narrazione -, il perdurante senso di vuoto e gli ostinati rimorsi per quello che è stato ed invece poteva essere.
È ancora la presenza della morte, non soltanto immaginata ma concretamente vicina, che ricongiunge nel ricordo la sorella e il fratello scomparso: “La morte bianca” l’autrice l’ha vista da vicino in Himalaya quando ha rischiato di lasciare questo mondo a causa del freddo; e, proprio in quel contesto in cui tutto sembrava addormentarsi lentamente, riappare un salvifico Germán: “E tutta la notte nella mia testa parlai con lui e non sentii il freddo, né mi addormentai” (pp.50). Potremmo considerarla una particolarissima elaborazione del lutto, che però non nasconde quanto possano essere state impietose le speculari reazioni di amici e familiari, almeno i primi tempi dalla scomparsa di Germán, fatte di colpevolizzazione e di irrazionali rancori alimentati probabilmente dalla presenza di una società conservatrice e maschilista: “tu che non meriti di vivere” (pp.78); ed ancora: “Era colpa mia, diceva. Perché mia madre aveva bisogno di un colpevole e il mare non le bastava, come a mio padre” (pp.109).
Tutti momenti insopportabili ma, come giustamente possiamo leggere nella premessa all’edizione italiana di “La muerte blanca” – premio Azorin nel 2002 – la protagonista “nella sua ricerca di senso pervasa da una miracolosa leggerezza scopre che la letteratura è l’unica macchina del tempo davvero funzionante”. Mettere nero su bianco, in sostanza, diventa un modo per far sopravvivere quello che rischia di trasformarsi in effimero: quei ricordi che si dicevano a volte ossessivi, a volte inaspettati, dispersi nel corso della narrazione senza un’apparente filo cronologico, svelano così una logica più profonda di fronte ad una scelta a cui non è affatto estraneo il povero Germán: “Mio fratello mi spingeva a scrivere. Mi diceva: Quando ti senti così, scrivi” (pp.96).
Una letteratura che diventa strumento per esorcizzare la morte, almeno intesa come oblio, pericolo subito evocato fin dalla prima pagina del racconto: “Mia madre si lamenta che più passa il tempo, più mio fratello si allontana da noi come fosse una barca. Le dico no, lui non si muove. I morti non si muovono. Lui è fisso, immobile, sempre sedicenne, per sempre bello. Siamo noi che ci muoviamo, che ci allontaniamo” (pp.11). E allora è per questo che l’autrice ha pubblicato “La muerte blanca”: “che ho sempre voluto scrivere. Lo scrivo per me ma, soprattutto, lo scrivo per lui”. Si manifesta così un’idea di letteratura salvifica, efficace medicina contro la paralisi emotiva di chi soffre (“dopo la sua morte non fui più in grado di scrivere niente”), oggi non troppo consueta, che quindi si ostina a ricordarci come in fondo si viva nella memoria di chi resta.
Edizione esaminata e brevi note
Eugenia Rico, (Oviedo, 1972) scrittrice spagnola. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra i quali il Premio Azorìn, il Premio Primavera, il Premio Ateneo de Sevilla, il Premio Llanes e la Borsa di Studio della Reale Accademia di Spagna a Roma intitolata a Valle-Inclàn. Tra le sue opere: “Aunque seamos malditas”, “El beso del canguro”. Ha inoltre vinto il premio Bauer Giovani al Festival Internazionale della Letteratura Incroci di civiltà a Venezia, evento culturale che coinvolge 25 autori da tutto il mondo.
In Italia è stato pubblicato da Elliot nel 2017 il suo libro “Gli amanti”.
Eugenia Rico, “La morte bianca”, Elliot (collana “Scatti”), Roma 2019, pp. 151. Traduzione di Sebastiano Gatto.
Luca Menichetti. Lankenauta, novembre 2019
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