La scena si apre sul porto di Le Havre, proprio il 31 dicembre 1899, quando il piroscafo mercantile Holy Steam è in procinto di salpare alla volta di Buenos Aires. Apparentemente tutto nella norma se non fosse che nella stiva a vapore si trovano gli artisti di un piccolo circo itinerante, Au Diable Vauvert, locuzione tipica francese che designa luoghi lontani, senza tempo. Un “senza tempo” che rispecchia in pieno le intenzioni dell’autore, Stefano Di Lauro, definitosi a buon ragione “mitonauta”, di fatto – il lettore avrà modo di scoprirlo fin dalla prima pagina del romanzo – un grande indagatore e divulgatore di archetipi letterari, da intendersi come viaggi e avventure che molto hanno a che fare col simbolo, l’arte e la meraviglia. Da questo punto di vista l’arte circense, soprattutto quella itinerante di un piccolo gruppo di uomini, donne e animali in attività intorno alla fine del XIX secolo, si presta bene ad evocare un mondo incantato, tratteggiato dalla presenza di inaspettati riscatti personali, di stupori, di divertiti paradossi, tutti all’interno di vicende insolite e surreali. Parallelamente alla vita sulla Holy Steam, la nave che dovrebbe portare oltre oceano Albert Icare Méliès (detto Orlando), Louise Bénédicte (della Lou), Prosper Frédéric, Jasmine Volange (detta Ailes), Mardea, Benjamine Lunaire (detto Nounours), nonché la scimpanzé Chouchou, lo sguardo del narratore torna al recente passato del circo, alla Francia fin-de-siècle e alle biografie bizzarre degli artisti dell’Au Diable Vauvert, a prescindere personaggi originali, spesso anche fisicamente fuori dalla norma.
Caratteristiche che si potranno scoprire progressivamente, fino all’ultima pagina: Nounours (il biondino musicista che si rivelerà una sorta di nanetto), la gigantessa Mardea, ed altri, anche coloro ormai lontani e che non affronteranno la traversata, rivelano il proprio aspetto fisico, le proprie abilità nel tempo, incentivando così un’atmosfera letteraria fatta di allusioni, di inatteso, di insolito, fin dal nome del circo: “Ma se la storia del castello ci racconta d’un luogo irrimediabilmente sinistro, quella di Vauvert racconta di un mondo alla rovescia, nel quale tra sacro e profano pare esserci più complicità che inimicizia” (pp.85). Anche in questo caso l’etimologia rivela un’arte, quella di Orlando e dei suoi amici, fatta appunto da uomini, donne e animali straordinari e non semplicemente esibiti in virtù di un aspetto mostruoso. Da qui il rifiuto del cinismo da freak show proprio di un Phineas Taylor Barnum, anni prima incontrato da Ailes, la “volatrice senza ali”: “Il provino di Jasmine Volange con il re del circo terminò ancor prima di iniziare. Madre e figlia tornarono in Francia con la certezza di saperne qualcosa in più sulla miseria umana” (pp.143).
La compagnia dell’Au Diable Vauvert, aliena da ogni sfruttamento, appare semmai una sorta di famiglia allargata in cui la diversità viene apprezzata e valorizzata come unicità e meraviglia; e in cui viene meno la solitudine e l’incomprensione patita nella vita precedente. Di conseguenza anche lo spettacolo del piccolo circo riflette la personalità dei suoi artisti: “Era una scena prestata ai miraggi notturni. Un sogno che si dipanava seguendo i nessi sinuosi dei sogni: deboli per la ragione, ma più che bastevoli agli alfabeti fluidi dell’analogia e della metafora” (pp.48). Insomma, spettacolo ed anche ferma rivendicazione della magia dell’arte e della sua dignità, proprio perché nutrita dall’insolito, dall’inconoscibile, dal mito: “La scienza che guardi all’inesplicato come ad una superstizione merita lo stesso disprezzo che merita la superstizione” (pp.269).
Il romanzo di Stefano Di Lauro, possiamo già intuirlo, ha quindi poco a che fare con il mainstream contemporaneo e si affida in gran parte al recupero di quelle che sono state definite “narrazioni di viaggio settecentesche” e “cronache ottocentesche” (Sara Ricci). In questo senso possiamo scrivere di un “romanzo classico”, che si iscrive in una tradizione passata, anche in virtù del fatto che l’autore ha evitato di dispensare paratassi oppure altro linguaggio più frequente da ritrovare nei romanzieri contemporanei. Salvo poi trattare tutte le vicende in maniera molto personale, alternando il tono fiabesco, il lirismo a brevi momenti di esplicito realismo (ad esempio la descrizione dell’anomalia fisica, dei sordidi bassifondi, dei dissidi familiari, dello sfruttamento sessuale e lavorativo). Date queste premesse è indubbio che il metro stilistico presente in “Troppo lontano” appaia molto vario (ancora Sara Ricci scrive di “una scrittura sorvegliata e al tempo stesso trasognata), tale da adeguarsi alle varie situazioni vissute nel passato più remoto e più recente dagli artisti dell’ Au Diable Vauvert.
La caratteristica che semmai rimane ferma dalla prima all’ultima pagina del romanzo è la presenza di innumerevoli riferimenti letterari, in parte cinematografici (anche il cognome Méliès accanto a un “Benjamine Lunaire” potrà suggerire qualcosa), quasi a voler confermare il ruolo di “mitonauta”. Per fare un esempio: Marcel Schwob, il celebre autore di “Vite immaginarie”, diventa un personaggio del romanzo ed assiste estasiato ad una rappresentazione dello spettacolo circense. Anche la “balena” (vedi alla voce Melville) diventa dall’inizio uno dei simboli guida di tutta la narrazione, proprio fino all’ultimo, enigmatico finale. Ed ancora l’Orlando Furioso e Racine, autore feticcio dei Méliès, sono più volte citati dagli eccentrici circensi, evocatori di mondi lontanissimi nonostante il loro girovagare si limiti, per lo più, alla Francia di fine secolo tra Biarritz, Arles, Vauvert, Marsiglia. Gli spettacoli della famiglia allargata dei Méliès rappresentano così una vera e propria filosofia di vita (“Se tutto fosse chiaro, l’arte non avrebbe ragion d’essere”, pp.27) che, proprio al nascere del nuovo secolo, sembra esser destinata ad abbandonare il Vecchio Mondo per il Nuovo Mondo. Salvo ancora una volta, coerentemente agli indizi letterari disseminati per tutto il racconto, imbattersi nell’inatteso ed in qualcosa di mitico e inafferrabile.
Edizione esaminata e brevi note
Stefano Di Lauro, autore, regista e compositore. Ha pubblicato “Eroine nient’altro da dichiarare” (2012) e “Dittico dell’amore osceno” (2011) per Shamba Edizioni; “La mosca nel bicchiere – La poetica di Carmelo Bene” (Icaro, 2007); “Opere” (Besa, 2006). Come regista teatrale ha lavorato in Italia e all’estero. Autore di testi teatrali, adattamenti di opere straniere e riscritture di classici, ha anche realizzato opere di video-arte e documentari, e scritto musiche di scena affiancando numerosi progetti musicali e discografici.
Stefano Di Lauro, “Troppo lontano per andarci e tornare”, Exòrma (collana “Quisiscrivemale”), Roma 2019, pp. 344.
Luca Menichetti. Lankenauta, dicembre 2019
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