Ritrovare Agota Kristof non solo è esaltante ma è anche commovente. Almeno per me. La Kristof, a mio modesto avviso, è una della scrittrici più talentuose e convincenti dell’ultimo secolo. L’ho “incontrata” nel 2005 grazie alla “Trilogia della città di K” e da quel momento ho capito che l’avrei amata per sempre. Perché non si può non amare il suo stile scarno e affilatissimo, la sua ricerca dell’essenziale, il suo perenne sfrondare fino a raggiungere l’ossatura delle parole e del significato che racchiudono. “Il mostro e altre storie” non fa eccezione, ovviamente. Siamo al cospetto di quattro pièce teatrali che la Kristof ha scritto tra il 1970 e il 1980 quando si trovava a Neuchâtel, in Svizzera, la città che è divenuta la sua patria dopo la fuga dall’Ungheria a seguito dei fatti del 1956. Quattro testi in cui è racchiusa un’essenza fatta di inquietudine, sofferenza, turbamento, incubo. Eppure, oltre a molta cupezza, in questi testi c’è anche acume, ironia, sfrontatezza e quella capacità visionaria che permette a uno scritto di tramutarsi in materia teatrale e, soprattutto, in grande letteratura.
A dire il vero non so fino a che punto la Kristof abbia ritenuto di scrivere testi solamente teatrali. Perché nelle quattro opere contenute in questo libro la componente meramente scenica appare quasi accidentale. A me pare molto più intensa e consistente la carica letteraria di cui i quattro componimenti sono portatori. Strutture sempre minimali: tutte le scene sono ridotte a un rigore e a una linearità che le rende quasi asettiche, spoglie, inconsistenti. Immaginare una trasposizione teatrale viene spontaneo anche se, in alcuni momenti, sono stata indotta a vagheggiare qualcosa di carattere più cinematografico, in uno stile che può avvicinarsi ad alcuni film di Lars Von Trier, per intenderci.
“Il mostro”, “La strada”, “L’epidemia”, “L’espiazione”. Anche nei titoli si rispecchia la sobrietà e la secchezza tipiche dello stile di Agota Kristof. Un articolo e un sostantivo, è sufficiente. I personaggi, per lo più, non hanno nome. Sono ciò che fanno o ciò che serve, l’indispensabile per essere riconoscibili e farsi portatori di parole e motivi. Concentrazione massima di significati sul filo incorporeo di un incubo che somiglia fin troppo bene a una realtà potenziale. Non c’è alcuna salvezza, sia chiaro. Anche se qualche velata parvenza di soccorso o consolazione, in alcuni momenti, pare affacciarsi tra un timore e una colpa, in realtà nulla di ciò che accade o di ciò che è scritto lascia spazio alla speranza.
“Il mostro“, come scrive la Kristof all’inizio, “si svolge in un mondo immaginario abitato da una popolazione primitiva che vive pressoché nuda e porta delle maschere“. È già conturbante trovarsi in un pianeta ridotto in questo stato. Diventa ancora più conturbante la presenza di una creatura mai vista prima che emana un odore nauseabondo. Gli umani non riescono a liberarsene inebriati dal profumo eccitante dei fiori meravigliosi che crescono sul dorso del mostro. Non solo non riescono ad ucciderlo, ma iniziano ad amare questa massa informe che cresce a dismisura divorando persone. Gli altri dimenticano e fanno finta di non vedere l’oscenità perché inebriati e stregati dal benefico profumo. C’è solo un ragazzo che sceglie di combattere l’atroce creatura ma, forse, per distruggere un mostro deve diventare mostro a sua volta, sommando orrore ad altro orrore. Ne “La strada“, invece, siamo catapultati in un mondo in cui esistono solo asfalto e cemento. Ci sono strade, strade e altre strade che non conducono in nessun luogo: “Anche là dove ci sono cartelli con la scritta “Uscita”, è solo un bluff. Sono false uscite. Non portano da nessuna parte. Portano semplicemente ad altre strade“. Sono state costruite da uomini che hanno smesso di usare le automobili le quali giacciono abbandonate ovunque e vengono usate come ripari al posto delle case.
“L’epidemia” è il testo più dissacrante e cinico, quello in cui la Kristof ha iniettato sagaci stille di umorismo macabro oltre, ovviamente, a quel tocco onirico che contraddistingue un po’ tutti i suoi scritti. La gente si suicida per ragioni che nessuno conosce, l’epidemia è questa. Di vivi ce ne sono sempre meno e le pratiche per la gestione dei corpi morti sono gestite da squadre di pompieri che, a quanto pare, comandano più di ogni altro essere vivente. L’ultimo testo è “L’espiazione” e anche in questo caso la scrittrice ungherese ci pone di fronte a tematiche umanamente fondanti quali la colpa e il perdono. Ci si ritrova, quindi, tra ciechi, menomati e un’avida vecchia, in un contesto degradato in cui i sensi primari sono venuti meno e non resta che una percezione mutilata di sé e del mondo.
In nessuno di questi testi è descritto esattamente un quando e un dove. Tutto avviene in spazi indefiniti e in tempi indefiniti. Forse in un futuro che dovrà arrivare o in un passato che è ormai estinto. In ogni caso la Kristof sembra voler porre i suoi personaggi, e anche noi lettori, di fronte a distruzioni e apocalissi di cui, in ogni caso, solo l’uomo è responsabile. Quattro “commedie nere” che lasciano nel cuore di chi legge un senso di angoscia e di esaltazione allo stesso tempo. Sono scritti crudeli, è innegabile, ma nella crudeltà estrema e impassibile descritta dalla Kristof sembra di avvertire una sorta di carezzevole nostalgia per qualcosa che probabilmente saremo costretti fatalmente a perdere.
Edizione esaminata e brevi note
Agota Kristof è nata in Ungheria nel 1935. Suo padre era un insegnante. A 14 anni Agota entra in collegio. Nel 1956 lascia clandestinamente l’Ungheria. Al tempo la scrittrice aveva 21 anni, era sposata ed aveva una bambina di soli 4 mesi. E’ destinata in Svizzera, a Neuchâtel, luogo nel quale ha vissuto fino alla sua morte. Nel 1987 pubblica il suo primo romanzo “Le grand Chaier”, a cui fanno seguito “Le previe” (1988), e la “Troisième menzogne” (1991), che confluiranno, in traduzione italiana, ne “La trilogia della città di K” (Einaudi, 1998). Dal romanzo “Ieri” (1995) è stato anche tratto il film di Silvio Soldini, “Brucio nel vento” (2001). Nel 2004 Agota Kristof pubblica “L’analfabeta“, nel 2005 “La vendetta” e nel 2006 “Dove sei Mathias?“. Sono conosciute anche alcune le sue pièces teatrali: “John et Joe” (1972) e “Un rat qui passe” del 1984. Le altre, “La chiave dell’ascensore” e “L’ora grigia o l’ultimo cliente”, sono state edite in Italia da Einaudi nel 1999. Agota Kristof muore il 27 luglio del 2011 a Neuchâtel. Sono usciti postumi: la raccolta poetica “Chiodi“, pubblicata in Italia nel 2018, e “Il mostro e altre storie” nel 2019, entrambi per le svizzere Edizioni Casagrande.
Agota Kristof, “Il mostro e altre storie“, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2019. Traduzione e introduzione di Marco Lodoli.
Pagine Internet su Agota Kristof: Wikipedia / Enciclopedia delle donne / Treccani
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