“Nel mondo fuori, l’unico ‘potere’ che lui aveva mai avuto era quello di ricordare le cose con dolorosa esattezza. Non che Nico ricordasse tutto, ma quello che ricordava era vivido come un altro presente. Finora aveva sempre subìto questo talento come una condanna, utile solo per le nostalgie di fine estate. Ora però, forse per la prima volta in vita sua, Nicodemo Bencivenga sentì di essere al posto giusto nel momento giusto”. p.135
Trovare la giusta distanza, non solo semantica ma anche e soprattutto concettuale, tra oblio ed eternità può essere un grande dilemma filosofico, ma è anche il percorso, breve o lungo che sia, che un narratore degno di tal nome si impone di intraprendere nel raccontarci una storia. Perché la sostanza di un racconto è sempre un compromesso tra oblio ed eternità, tra la memoria del tempo che fugge e che a poco a poco si cancella, ed un domani ignoto denso di speranze, paure ed aspettative che si “prolungano oltre” la storia che ci viene narrata – il poeta Pasquale Panella, per sintetizzare a suo modo questo concetto, nella prima traccia del disco Don Giovanni (Le cose che pensano) trovò dei versi che Lucio Battisti ha reso immortali e che terminano con un geniale neologismo: In nessun luogo andai / per niente ti pensai / e nulla ti mandai per mio ricordo / Sul bordo m’affacciai / d’abissi belli assai / Sul dolce tedio a sdraio / amore ti ignorai / invece costeggiai i lungomai. Giovanni De Feo, narratore di grande talento e alfiere di un fantasy mediterraneo che è pressoché un unicum nel panorama letterario del Bel Paese, si cimenta nuovamente con un romanzo di genere ricco di spunti di riflessione, nel quale tempo e memoria, oblio ed eternità, sono ancora una volta i temi cardine di un’avventura che conduce il suo giovanissimo protagonista, dopo un viaggio iniziatico ricco di sorprese e pericoli, a trovare se stesso e uno sguardo nuovo sul tempo che verrà.
Siamo in Italia, nell’estate del 1989. Per Nicodemo,11 anni, è arrivato il giorno della partenza. Il papà ha trovato un nuovo lavoro e lui e la sua famiglia sono costretti a lasciare la casa di una vita, l’amato quartiere e gli amici di sempre. Non appena la macchina si mette in moto, ecco che però intravede oltre il cancello qualcuno che stringe tra le mani il fazzoletto bianco da cui non si separa mai, Flagello. Svelto, Nico si lancia alla rincorsa di quella figura così stranamente simile a lui, avvolta in una nuvola di insetti dalle ali iridescenti. Dopo pochi istanti si ritrova in una stanzetta murata dietro a una parete della sua casa di cui non conosceva l’esistenza. È una camera oscura, ed è ricoperta in ogni suo centimetro da fotografie. Al centro, una cornice con una voragine al posto dello specchio, da cui si alza un suono come di uno schiocco; un invito. Nico si slancia all’interno di quel cunicolo buio. Il luogo in cui approderà sarà un mondo di fotografie governate da regole sottili, dove oblio ed eternità si affrontano in una lotta senza tempo e dove solo lui può ristabilire la pace.
Dopo un capolavoro di genere immotivatamente poco conosciuto oltre la cerchia di alcuni lettori forti e appassionati del fantasy, quale è indubitabilmente Il mangianomi (a proposito: leggetelo e diffondetelo perché merita davvero), e dopo un’opera seconda assolutamente meritevole d’attenzione come L’isola dei Liombruni, con La stanza senza fine Giovanni Deo Feo si cimenta forse col suo romanzo più sentito e personale, nel quale è immaginabile sia fortemente presente una componente autobiografica. A farlo supporre non è solo la dedica iniziale (e leggendo scoprirete perché), ma anche una nota nei ringraziamenti finali in cui si scopre che l’autore ha lavorato a questo libro per circa 20 anni. Come detto, la narrazione si muove sul filo sottile della memoria, e parte con un incipit folgorante dalle venature horror che si svolge in Russia, durante la seconda guerra mondiale: un soldato italiano, allo stremo delle forze e consumato dal rigido inverno nevoso, si trova di fronte ad un Nemico oscuro e ancestrale, ben diverso e peggiore sia del gelo che dell’Armata Rossa. Lottando con esso gli ruberà uno sguardo. Non soccomberà, ma sarà la sua eterna condanna. Come questi eventi siano legati al giovane Nicodemo lo scoprirete lungo il percorso, ma ciò che più conta è come De Feo riesce a immergerci, insieme al giovane protagonista, nel suo personalissimo labirinto di fotografie, che sono allo stesso tempo mondi a sé stanti ed un perfetto, geometrico recinto partorito da un unico individuo. L’abilità del narratore di muovere personaggi e situazioni senza far perdere la via maestra al lettore è qualche cosa di davvero ingegnoso, tanto da dover essere stigmatizzato positivamente: era facile, anzi direi più che probabile perdersi, e questo ci spiega anche i tempi lunghi nel mettere a punto l’intera struttura dell’opera. Fondamentali per la comprensione della storia sono anche i cinque intermezzi che l’autore intervalla all’avventura fotografica di Nicodemo, nei quali le lettere del “Mastro” sembrano quasi voler far riprendere fiato al giovane protagonista, nel suo continuo “spaginare”. L’ affidarsi ad efficaci neologismi, unitamente alla ricercatezza nella scelta dei nomi, è una cifra stilistica riconoscibile nei romanzi di De Feo, come lo è anche l’uso di un linguaggio altrettanto ricercato e a volte desueto, ma sempre scorrevole ed immaginato ad hoc. Eloquente e fortemente esplicativo è anche l’indovinato sottotitolo del libro, Le avventure fotografiche di Nicodomico, il quale già dal cartonato della copertina ci dà una forte indicazione sul viaggio che andremo ad intraprendere insieme al protagonista. Del resto, De Feo ripesca abilmente – è presumibile – nella sua infanzia per raccontarci il labirinto di memorie del Mastro, concependo una storia familiare che può essere paradigmatica, non distante da ognuno di noi. Questo è il feedback che trova immediatamente con la stragrande maggioranza dei lettori: tutti coloro che, all’ingresso dell’adolescenza, al termine di un’estate, hanno intimamente trasformato l’immaginazione del fu bambino nell’approdo progressivo a un’età più adulta. Il viaggio che Nicodemo compie è un tratto di vita che abbiamo vissuto noi tutti, a ben guardare, un percorso iniziatico che materializza i mostri delle fiabe e dei sogni, per aiutarci a sconfiggerli e guardare oltre la soglia del Babau; lì dove i mostri, ahimé, diventano più convenzionali e meno aggredibili dalla fantasia. Ma il tempo emotivo, quello nel quale con un semplice sguardo in uno specchio si attraversano più mondi e dimensioni, non è misurabile col tempo lineare. Ecco perché sopraggiunge la memoria a confonderci e a soccorrerci; ecco perché le foto fissano una realtà ma non sono la realtà, come ci spiega bene “Mastro De Feo”. Ecco perché Nicodemo trova infine la via del ritorno dal labirinto, ed ecco perché i ricordi sono preziosi – sono tutto. Lontani “dall’effimero”, in ogni senso. Forse dovrei scusarmi per i giochi di parole e gli ammiccamenti al romanzo, ma sono stato anch’io contagiato dallo spirito che anima le storie di Giovanni De Feo, il quale ne La stanza senza fine trova perfetta circolarità con tematiche esposte in opere precedenti, e alcune vaghe assonanze – non poi così tanto vaghe, a guardar bene, a dispetto dei differenti contesti – con i protagonisti delle sue storie. Prima tra tutte quella che riguarda l’importanza dei nomi, nei quali è contenuta l’identità dei personaggi. Sia Magubalik (Il mangianomi) che Nicodemo hanno il destino e al contempo la memoria iscritta nel nome. E c’è poi c’è il senso del viaggio alla ricerca di sé, al quale idealmente si aggiungono anche Zenzero e Smiccio (l’isola dei Liombruni). Suggestive sono anche le citazioni che precedono le parti in cui si suddivide il romanzo, con segnalazione d’obbligo per quella che indirizza la narrazione – tratta da una delle più significative opere di un maestro del fantasy come Michael Ende (Lo specchio nello specchio) – , sintetizzando efficacemente lo spirito del racconto: Il male inizia sempre con l’oblio di una nostalgia.
Il recupero degli anni Ottanta, tendenza assai in voga ultimamente, nel cinema come in letteratura, non contagia De Feo come si potrebbe supporre dall’ambientazione temporale di partenza, ma è solo un contesto storico familiare all’autore (che è del 1973, come chi vi parla), perché il viaggio attraverso le foto che compie Nicodemo è ambientato nell’immediato dopoguerra e poco oltre. Un viaggio che ha dell’incredibile solo a pensarlo; un’idea che poteva essere partorita solo da un’immaginazione narrativa come quella di Giovanni De Feo il quale, non nuovo alla costruzione di imprevedibili ambientazioni fantasy – che non scimmiottano, per nostra fortuna, né la solita mitologia nordeuropea né esot(er)ismi di sorta -, con questo romanzo è auspicabile possa trovare sia la sua consacrazione artistica (segnalo che ha scritto la sceneggiatura di una sorprendente, autoprodotta e ahimé poco conosciuta opera prima cinematografica di genere, diretta da Marco Chiarini. L’intenso e rigenerante, L’uomo fiammifero) che una più vasta diffusione, aiutato anche da una casa editrice mainstream come Mondadori.
Le avventure fotografiche di Nicodemo, pertanto, dopo un lungo spaginare, si concludono riaccordando consapevolezza e memoria, passato e presente, orientando lo sguardo a ciò che – spaginando nella realtà – il destino riserverà. E noi spaginiamo con lui, avvolti dal mistero e dal fascino di una narrazione che consacra Giovanni De Feo, fuor di dubbio a parere di chi vi parla, tra i maggiori letterati europei di genere.
“ ‘Sai cos’è un globulo bianco presumo’ disse infine. ‘È una cellula che attacca i nemici del corpo?’ ‘Ecco, il Nemico è più o meno questo. Solo che lui attacca i nemici del Tempo’ ‘Del tempo? Ma se vuole sempre far dimenticare!’ ‘Certo. Ma vedi, dimenticare fa parte del Tempo. Tutto alla fine si perde. Tutto. Non solo persone, ma città, regni, imperi, tutto viene spazzato via. È la natura delle cose’. ‘Ed è una cosa buona?’ ‘Non è una cosa buona né cattiva, è così e basta. Se così non fosse, il Tempo si incepperebbe’. ‘In che senso?’ ‘Come un disco, che ripete le stesse cose. L’Effimero, come lo chiami tu, è lì per evitare che si inceppi. Perché ci sia qualcosa di nuovo, bisogna che prima o poi ci si dimentichi’ ‘E quindi tu…’ ‘Io ho costruito tutto questo per conservare per sempre un ricordo’ “. p.349
Edizione esaminata e brevi note
Giovanni De Feo, romano, classe 1973, è romanziere, storyteller e sceneggiatore. È stato per quindici anni insegnante di Letteratura in scuole International Baccalaureate, tra Amsterdam, Londra e Genova. I suoi racconti fantastici sono apprezzati in Italia e negli Stati Uniti, dove sono stati antologizzati. Il suo Il mangianomi (Salani) è considerato il primo romanzo fantasy di ambientazione italiana. Il suo secondo romanzo, L’isola dei Liombruni, è edito da Fazi. È lo sceneggiatore del film L’uomo Fiammifero, diretto da Marco Chiarini e finalista ai David di Donatelllo 2010.
Giovanni De Feo, La stanza senza fine. Le avventure fotografiche di Nicodemo, Mondadori, 2019. Illustrazioni di Kalina Muhova.
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