“Ancora quella sensazione. Che tutto si stesse svuotando, risucchiato in un gorgo. Uno spazio oscuro, un corridoio d’ombra dove deboli bave di luce permettevano a stento di distinguere profili di oggetti. Come se la vita fosse scivolata in uno stato d’apnea e per pochi, brevi attimi, le cose si mostrassero per com’erano quando nessuno le osservava: traslucide, prive di sostanza” (pp.9). Questo l’incipit del romanzo “Viale dei silenzi”; e siccome l’autore è il fiorentino Giovanni Agnoloni, già noto per la “trilogia della fine di internet”, il lettore di primo acchito potrebbe immaginare un ritorno agli argomenti e alle atmosfere presenti in “Partita di anime” oppure in “Sentieri di notte”. Ovvero la prosecuzione di un percorso letterario tutto dentro il cosiddetto connettivismo. In realtà non è così o almeno non è del tutto così. “Viale dei silenzi” non si caratterizza per espliciti topoi fantascientifici (che pure nel genere introdotto da van Vogt hanno molto a che vedere con la rappresentazione, portata alle estreme conseguenze, dei pericoli e dei disagi del tempo presente); ma è anche vero che le parole di Roberto, l’io narrante del romanzo, si sostanziano all’interno di monologhi, o, più precisamente, di dialoghi con persone – forse – assenti, per lo più in bilico tra realtà e illusione, rimpianti ed interrogativi angoscianti. Se i cloni immateriali della trilogia non hanno ragion d’essere, però quella che è stata definita “indagine dei territori della memoria” viene condotta ancora con ampio ricorso alle intuizioni del protagonista, a situazioni dove incontri sfuggenti, tali da suggerire plausibili inganni, e ricordi che riaffiorano quasi con accanimento proustiano, fanno pensare ad una dimensione spirituale mai del tutto separata da quella più materiale e quotidiana.
Roberto è infatti uno scrittore girovago, fiorentino di nascita, ma più probabilmente cittadino del mondo – come ha voluto precisare l’autore: “questo non è un romanzo autobiografico” – che si rivolge ad un padre scomparso quattro anni prima a Varsavia. Peraltro il giorno prima di far perdere le proprie tracce, Alfredo, un abile uomo d’affari, si trovava a cena con suo figlio e con una coppia di polacchi con i quali era in affari e che, a quanto pare, ha danneggiato pesantemente con la sua fuga. Solo tornando a quei momenti il narratore, ormai rifugiatosi da tempo in una Firenze che gli ha lasciato grandi malinconie, nonché un’inaffidabile ex moglie e una madre fredda, distante, molto poco materna, potrà riannodare flebili indizi utili a farlo uscire dal suo rimuginare tormentato. Il leit motiv dell’assenza appare così, in tutta evidenza, ancor più in rapporto al “personalissimo viale dei silenzi”, tragitto e “luogo rivelatore” che non ha una definita collocazione geografica, che può essere fiorentina ed anche polacca: “Avevo percorso molte volte quella strada dopo la tua scomparsa, e ancor più dopo che mia moglie si era dileguata. Doveva essere stata la sommatoria delle vostre due assenze a rendere più viscerale il mio rapporto con quell’itinerario” (pp.19). Un’assenza che rende intellegibili i silenzi, ovunque essi siano: “..come questa Varsavia a più strati, pure la Firenze in cui tu eri vissuto era una proliferazione di epoche e stagioni. E, curiosamente, comunicava proprio come te: tramite il silenzio e l’assenza” (pp.22).
Il racconto – dialogo di Roberto rappresenta in sostanza la ricerca di un padre volatilizzato non si sa dove e nel contempo la fuga da una Firenze globalizzata, irriconoscibile almeno agli occhi del narratore, pervasa da ricordi e malinconie, dove i “viali dei silenzi” del luogo sembrano incentivare un chiaro senso di sradicamento ed estraneità al presente.
La ricerca del genitore avviene più per sensazioni che per veri e propri indizi; e proprio questo contesto – sostanzialmente un viaggio dall’Italia all’Irlanda, passando dalla Polonia alla Germania, dove lo scoraggiamento si alterna incessantemente con la speranza, consentirà a Roberto di conoscere prima Erin, un’enigmatica giornalista irlandese, “ibrido tra un’innamorata inattesa e una sorella mai immaginata” (pp.103), e poi i luoghi vicino a Buncrana, in cui probabilmente il padre in fuga pensava di stabilirsi. Ma giusto non spoilerare: il romanzo, anche in virtù di un linguaggio levigato, volutamente evocativo, è vero che intende immergere il lettore in un’atmosfera rarefatta, ricca di riferimenti spirituali ed andare ben oltre la vicenda di un padre fuggiasco e con qualche colpa di cui rendere conto; ma è anche un racconto che vive di enigmi, di misteri irrisolti, forse risolvibili (e allora si potrebbe affacciare l’idea di una nuova trilogia), e che quindi potrebbe lasciare spazio ad un colpo di scena o almeno ad una soluzione che veda finalmente Roberto approdato alla fine di un suo viale dei silenzi.
Edizione esaminata e brevi note
Giovanni Agnoloni, (Firenze, 1976) è laureato in Giurisprudenza, è scrittore e traduttore. Studioso di Tolkien in chiave comparativa con gli autori classici e contemporanei, compare, con l’articolo “Tolkien as a Benchmark of Comparative Literature. Middle-earth in Our World” nella pubblicazione “The Ring Goes Ever On: Proceedings of the Tolkien 2005 Conference” (The Tolkien Society, 2008). Tra le sue pubblicazioni si ricordano: “Partita di anime” (2014), “Sentieri di notte” (2012), “Tolkien e Bach. Dalla Terra di Mezzo all’energia dei fiori” (2011), “Nuova letteratura fantasy” (2010), “Letteratura del fantastico. I giardini di Lorien” (2004), “Less Than a Mile” (2004), “La casa degli anonimi” (2014). Scrive sui blog “La Poesia e lo Spirito” e “Postpopuli”. Esponente del movimento letterario fantascientifico del Connettivismo, compare nelle raccolte di racconti Noir No War (Giulio Perrone, 2006) e AFO. Avanguardie Futuro Oscuro (Kipple Officina Libraria, 2009).
Giovanni Agnoloni, “Viale dei silenzi”, Arkadia (collana “Senza rotta”), Cagliari 2019, pp. 136.
Luca Menichetti. Lankenauta, dicembre 2019
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