Sarebbe bene scusarmi, in apertura, con l’autore poiché l’ho personalmente sottoposto a un’attesa biblica per queste poche righe che sto andando a compilare, non perché io abbia in odio Sergio Leone – ho avuto anche io il mio periodo leonesco ancorché insensibile ai generi cinematografici – quanto perché risucchiato da una delle più insulse e burocratiche università d’Italia per strappare una laurea a dei docenti sonnacchiosi e bipolari (alcuni dei veri e propri pagliacci). Poiché però questo non può essere un motivo valido, mi permetto ancora una volta di chiedere scusa a Roberto.
Allora: Sergio Leone. Eh, Leone è una vecchia fiamma di Roberto Donati ed io lo capisco. Fa parte di quelle infatuazioni pre adolescenziali che non ti togli di dosso facilmente. Intanto perché sono illusioni – il cinema no, non è un’illusione – ed è come innamorarsi di qualcosa che non c’è più o addirittura di qualcosa che “non ebbe mai cominciamento”, per dirla con qualcuno. Innamorarsi di qualcosa che non può rifiutarti: può essere ostico, può essere inarrivabile, puoi imparare a comprenderlo a fondo magari da adulto, magari dopo migliaia di film, dopo esserti fatto le ossa come cinefilo, limando la sensibilità verso il mestiere, la struttura narrativa, la composizione dell’immagine, del sonoro, la collocazione all’interno della storia del cinema, le influenze e le premonizioni. Ma un film non ti dirà mai di no. È come innamorarsi di una persona che non ti ha mai visto. C’è un certo odore di morte in effetti, per non deprimerci o – peggio – per non scadere nella provocazione, possiamo interpretarlo come un amore totale eppure impalpabile, fuggevole, che si ricarica di desiderio quanto più ci si avvicina all’assenza del nostro oggetto del. Ahi, Bunuel sempre in mezzo ai piedi!
Sia come sia, c’è un bel prologo in questo libro dove l’autore, svergognatamente (e meno male) si cuce un momento tutto per sé dove narra – e accidenti, è un piacere leggerlo – proprio di questa infatuazione, di questa ossessione e del suo svolgimento. Appunto, tredici anni. Che cavolo, è l’età in cui ho visto i Marx per la prima volta. Pessima cosa. Non c’è modo di estinguerla questa piaga. Come il tallone di un paziente allettato: è fermo, non sta sfregando sul letto, anzi cerca di sollevarlo perché sente che la pelle si sta irritando, eppure nulla, la fisica lavora, il peso del piede spinge verso il letto, il letto spinge verso il piede e il tallone si piaga. Ci sono amori che non durano, altri che finiscono male eppure risorgono a singhiozzo per tramutarsi in odio e depravazione. Quello di Donati per i film di Leone è un rapporto che durerà per sempre, che lui lo voglia o no.
La prima volta che ho letto Roberto parlare di Leone era forse il 2006, saltarono fuori anche dei canguri, ma in lui si vedeva la forte determinazione a sviscerare quei film e a dimostrare al mondo che non era una semplice infatuazione da spettatore. Si è ripulito del lato prettamente emotivo, ha cercato il motivo, la ragione, l’atteggiamento scientifico per essere obiettivamente neutro (agli occhi dei lettori) e dire perché un capolavoro è un cazzo di capolavoro. Però stavolta lo ammette che l’analisi del film (di Leone intanto, del film poi) che ha raccolto in questo libro nasce da questo: da una sbandata adolescenziale, di quelle che ti plasmano il cervello per sempre. Hai voglia a studiare, ad approfondire, a rinnegare, a ponderare e conoscere tutto quello che è esistito prima e ora: non finirà mai l’analisi del cinema di Sergio Leone. E poi se l’è scelto mica male, fosse stato Pippo Franco forse (e dico forse) non arrivava a un abstract, ma lui si è incaponito col maestro del western all’italiana.
Segue un prologo con una panoramica della biografia artistica di Leone molto ben contestualizzata. Già il padre di Sergio lavorava nel cinematografo (con quegli occhioni dolci della Bertini), e lui lo ritroviamo emaciato e occhialuto nel cinema antifascista di De Sica, e presto già lussureggiante nel terribile Colosso di Rodi. Ma il West è lì a due passi.
Donati si addentra finalmente nella carcassa spiaggiata nella memoria: focalizzandosi sui temi cardini del film l’autore non ci risparmia nulla: sa bene dove guardare e ci guida verso una lettura attenta del film, corredata dai frame che più esemplificano la sua tesi. Ecco allora focalizzarsi sul ruolo totalizzante del tempo, dei personaggi che vi sono incastrati e che si dilatano con esso e in esso, del viso sudato e destabilizzante della Cardinale, dell’elemento fondamentale che non è il fuoco, non è l’aria, non è la terra. A me non serve dirvi altro, i riassunti non mi sono mai piaciuti. Certo è che, andando avanti con la lettura, ci saranno anche delle sorprese.
Non è scontato questo libro, né appesantisce la lettura. Invece stimola, aggrada, allieta. Mica poco.
Edizione esaminata e brevi note
Roberto Donati (Arezzo, 1980) scrittore, giornalista e docente italiano.
Roberto Donati, “C’era una volta il West di Sergio Leone”, Gremese editore, Roma 2017, pp. 140.
Luca Martello. Lankenauta, gennaio 2020
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