Samarcanda, Emir B&B giovedì 23 aprile 2015 ore 23:58
Con l’aiuto di una teiera fumante che ormai ci sentiamo praticamente in dovere di ordinare ad ogni pasto mangiamo a sazietà. Prima di passare alla prossima attrazione dobbiamo sbrigare un paio di faccende, la prima è comprare il biglietto del treno per Bukhara, la città che vogliamo visitare dopo Samarcanda. Chiedendo informazioni ai passanti riusciamo a trovare l’ufficio delle ferrovie statali, compriamo i biglietti per dopodomani. Questo vuol dire essere in ritardo di un giorno sulla nostra tabella di marcia, io avrei preferito partire direttamente domani, ma evito di fare polemiche inutili. La seconda faccenda è far cambiare soldi ad Alessandro. Fin dal primo giorno si è dimostrato scettico sul cambiare soldi al mercato nero e così oggi vuole passare in una banca per farlo in modo legale. Arriviamo in un quartiere moderno costellato di orrendi edifici pubblici e troviamo una banca. Lo aspettiamo fuori e dopo mezzo’ora esce dichiarando che non è riuscito a combinare nulla. A quanto pare l’hanno solo spedito da un ufficio all’altro per poi comunicargli che deve tornare domani mattina. Mi viene da ridere, la pratica di cambiare soldi al mercato nero è così diffusa che le banche non sono nemmeno pronte quando qualcuno vuole farlo al tasso di cambio ufficiale. Ci lasciamo dietro quel’orribile quartiere della città, la nostra meta per il pomeriggio è un altro dei gioielli di Samarcanda, la moschea di Bibi-Knanym. Per arrivarci dobbiamo attraversare a piedi uno dei parchi pubblici più grandi della città. Lo stile di questo parco è molto simile a quelli che ho visto in Azerbaigian, pochi alberi, erba tagliata perfettamente e su cui nessuno osa mettere piede e numerose giostre per bambini. Ho l’impressione che stiamo passando per il parco proprio poco dopo la fine della scuola perché vediamo moltissimi bambini che corrono da tutte le parti seguiti a distanza dalle loro madri o dai nonni. Solo adesso noto la particolare varietà cromatica degli abiti femminili uzbeki: si tratta in genere di vestiti piuttosto coprenti e larghi anche se sono ben poche le donne col velo in giro. I colori che sfoggiano e le fantasie dei vestiti sono veramente le più variegate e trasmettono una sincera allegria. L’idea che mi sono fatto finora di questo popolo è sinceramente positiva, mi sembrano persone con un certo gusto estetico, che amano i piaceri della vita. ma che allo stesso tempo hanno un occhio critico verso il loro paese. Certo è che non è possibile arrivare a conclusioni definitive dopo solo tre giorni di soggiorno nel paese. La moschea di Bibi-Khanym si trova al limitare del parco, proprio prima del bazar e la si nota subito per le sue dimensioni. Da sempre è considerata gioiello architettonico del regno di Tamerlano, venne completata infatti proprio pochi anni prima della sua morte. Leggenda vuole che fu una delle sue mogli che ne ordinò la costruzione mentre egli era assente, il suo intento era quello di fargli una sorpresa. Il problema fu che l’architetto si innamorò della donna e giurò che non avrebbe mai finito la moschea a meno che non avesse ricevuto un bacio da lei. Lei cedette, ma baciare la moglie di uno che ha conquistato mezzo mondo con la violenza non si rivelò la migliore delle idee: Tamerlano una volta tornato capì cos’era successo, fece giustiziare l’architetto e decretò che tutte le donne dovessero portare un velo per fare in modo che non potessero così indurre in tentazione gli uomini. La storia in verità dice che Tamerlano tornò ben prima che la moschea fosse finita, ma si sa che le leggende sono spesso più affascinanti della realtà.
La moschea ha avuto e ha tuttora diversi problemi strutturali a causa delle sue dimensioni, in particolare per quanto riguarda la grande cupola. Questo non toglie nulla alla sua bellezza: lo stile è assolutamente lo stesso del Registan, la pianta è quadrata, ai quattro angoli ci sono degli eleganti minareti che ne snelliscono la struttura, il cortile interno è ampio e verdeggiante, le decorazioni dell’entrata sono magnifiche e si potrebbero passare ore ad osservare l’intricato intreccio di linee e punti creati con la maiolica. Al centro del cortile svetta un gigantesco leggio che in passato era destinato alla lettura del Corano. Cerco di immaginarmi una persona che legga un libro così smisuratamente grande e mi rendo conto che dev’essere sembrata una scena piuttosto ridicola. Apprendiamo dalla guida che, secondo la tradizione, se una donna passa sotto al leggio avrà molti figli in futuro. Tuttavia, a giudicare dal nastro segnaletico intorno al leggio, questa pratica è stata vietata.
Per oggi avremmo terminato la nostra lista di luoghi da visitare, Marco tuttavia avanza una proposta, il quartiere ebraico. Marco ha una certa passione per la civiltà e la cultura ebraica, ne ha pure studiato la lingua per un anno. Quando ha vissuto a Venezia aveva affittato una camera nel ghetto, a Baku mi ha portato con lui a visitare la sinagoga, dove abbiamo fatto un’interessante chiaccherata con il rabbino e in Georgia ha cercato addirittura di convincermi ad andare a mangiare in un ristorante kosher. Non me ne vogliano gli appassionati della cucina kosher, ma data la ricchezza e la varietà della cucina georgiana è bene approfittarne finchè si è là. Strano ma vero, anche a Samarcanda c’è un quartiere ebraico e si trova tra l’altro a poca distanza da dove siamo adesso, in quella che è considerata la città vecchia. Trovarne l’entrata non è per niente facile visto che le autorità locali hanno cercato anche qui di nascondere la vista dei quartieri popolari e di quelli meno sviluppati ai turisti. Già dal parco pubblico dove ci troviamo abbiamo notato un alto muro che ci nasconde la vista della città vecchia, riusciamo a trovare un piccolo ingresso semi-nascosto tra due negozi di souvenir. Forse il mio occhio si è ormai abituato alla vista di quartieri popolari post-sovietici, ma non ci vedo nulla d’imbarazzante in quello che incontriamo: una normale stradina su cui si affacciano le case, le tubazioni sono a vista ma non sono particolarmente brutte, bambini incuriositi dalla nostra presenza giocano a pallone e dei piccoli canali di scolo corrono ai lati della strada. Dopo qualche centinaio di metri arriviamo ad uno spiazzo dove vediamo una piccola moschea: non ha nulla della magnificenza e della ricchezza di quelle che ci siamo appena lasciati alle spalle, ma appunto per questo la trovo molto bella. L’edificio è piccolo e semplice, intorno ad esso corre un alto porticato di legno con delle bellissime colonne e delle altrettanto belle decorazioni floreali. Qualche uomo chiacchera pigramente davanti all’entrata. L’atmosfera è pacifica, direi quasi sonnolenta.
Più avanti ancora arriviamo alla piazza, lo deduco dal fatto che c’è un’altra moschea e soprattutto il bar. A dire il vero sembra che ci siano due bar, uno però è in ristrutturazione. Un uomo, con fare poco amichevole ci dice di non fare foto, un altro però, che ci stava guardando dal locale in ristrutturazione si avvicina e ci dice di lasciarlo perdere. Come per scusarsi del suo comportamento c’invita a prendere un tè. In verità per noi sarebbe quasi ora di tornare in ostello ma come si fa a dire di no? Entriamo nel locale dove vediamo che i lavori sono effettivamente a pieno regime. Alcuni dei tavoli tradizionali, quelli sopraelevati, sono ammassati sulla destra, su uno di questi, semidisteso sui cuscini, c’è un uomo incredibilmente vecchio, completamente senza denti e senza capelli, ma con una delle espressioni più amichevoli che abbia mai visto. Non riesce ad alzarsi del tutto ma gli stringiamo lo stesso la mano a turno. Lui ci sorride, indossa il cappello tradizionale uzbeko, una camicia con sopra un maglioncino e una giacca in cui credo potrebbe starci almeno due volte.
Ci sediamo su una panca di fianco al tavolo e il nostro ospite si mette a scaldare l’acqua per il tè. Trattengo a stento le risate nel vedere che dopo aver preso un bollitore di quelli che tutti noi conosciamo e averlo riempito d’acqua, ci piazza dentro due pinze eletriche, di quelle che si usano quando si vuole far ripartire la batteria di una macchina per capirci. Assoutamente fantastico, probabilmente pericolosissimo, ma fantastico! Dopo le solite domande di rito, chiediamo informazioni sulla sinagoga. L’uomo che ci ha invitato conosce il rabbino e senza aggiungere altro prende il telefono e lo chiama. Ci riferisce che in mezz’ora arriverà per mostrarci la sinagoga. Forse ha capito che siamo tutti e quattro affascinati dal vegliardo e così ci parla di lui, ci racconta che ha ben 96 anni e che nel quartiere lo conoscono tutti. Aggiunge che suo padre è ancora vivo anche se è in ospedale. Marco, che in queste occasioni si dimostra sempre molto intraprendente, gli chiede di dirci qualcosa della sua infanzia o della sua giovinezza. Lui ci racconta di come abbia sempre vissuto qui nel quartiere e di come fosse comune soffrire la fame. Il cibo non era facile da reperire, specialmente negli anni Trenta. Ora dice che la situazione è diversa ed è contento di come stanno le cose. Non riesco a capire se la sua espressione facciale sia dovuta alla mancanza dei denti, ma ci dice tutto questo sempre sorridendo amabilmente. Impossibile non provare subito simpatia per lui. Dopo aver bevuto il tè salutiamo e il nostro ospite ci scorta fino alla sinagoga. In pratica proseguiamo lungo la strada principale e dopo qualche minuto infiliamo una stretta laterale, dove troviamo una bellissima porta di legno intagliato. Una targa sul muro e delle decorazioni a forma di stella di Davide e di candelabro a sette braccia ci fanno capire che siamo arrivati. Il rabbino arriva qualche minuto dopo. Non sembra troppo sorpreso di dover fare da guida a degli stranieri e forse è per questo che i suoi modi sono un po’ bruschi. La sua considerazione nei nostri confronti sembra migliorare quando scopre che almeno due di noi parlano russo. Oltrepassiamo la porta e ci ritroviamo in un cortile interno in cui scorazzano dei polli. Un’altra porta conduce alla sinagoga vera e propria, di fianco a questa sono posizionate in fila le foto di tutti i precedenti rabbini. Quello attuale ci spiega che i primi ebrei arrivarono qui da Bukhara (nostra prossima meta) negli anni Novanta del 1800, ma oggi la comunità è molto ristretta e in continua diminuzione. All’interno la sinagoga è una stanza quadrata elegantemente decorata: pannelli di legno intagliato coprono i muri nella parte inferiore, nella parte mediana l’intonaco bianco è decorato con motivi e iscrizioni dorate, il soffitto è una specie di cupola colorata con vernice azzurra. Una bandiera d’Israele è appesa al muro e al centro c’è una specie di altare con un possente leggio in legno. Il rabbino ci mostra con orgoglio la collezione di vecchi libri conservata negli scaffali di legno, alcuni risalgono agli anni Quaranta.
Finita la visita il rabbino ci saluta con il suo fare sbrigativo e ci lascia, noi torniamo in ostello. Ringrazio più volte Marco per averci proposto di visitare questa parte della città. Ho la sensazione che siamo riusciti a rompere quel velo di copertura steso per i turisti per fare in modo che vedano solo lo stretto necessario, abbiamo compiuto un’incursione nel cuore della Samarcanda vera che pochi conoscono o vogliono conoscere. In ostello ci facciamo una doccia e ci riposiamo un’oretta. Nel frattempo arriva il figlio dei gestori, un giovane dal ventre prominente e che parla inglese. Per la cena ci consiglia un piccolo ristorante poco lontano, economico e poco turistico, esattamente quello che stavamo cercando. Molto gentilmente ci disegna una piccola mappa del percorso da fare. In pratica dobbiamo attraversare il quartiere popolare al limite del quale si trova il b&b. Lo stile è chiaramente lo stesso del quartiere ebraico, ma di nuovo non mi sembra di vedere particolare squallore o sporcizia. Certo ha i suoi limiti, ma è tranquillo, silenzioso e le strade sono sufficientemente illuminate. Senza particolari difficoltà arriviamo al ristorante. In effetti siamo gli unici stranieri e anche il cameriere sembra non sapere cosa fare con noi. Il locale si trova su una specie di piccola piazza, la maggior parte dei tavoli sono posizionati sotto alte tettoie, il che ci va benissimo visto che fa ancora piuttosto caldo. Al centro della scena c’è una grande griglia di ferro sormontata da una cappa di metallo. Qui un paio di cuochi sono indaffarati a grigliare decine e decine di sashlik, gli spiedini di carne che abbiamo già assaggiato a Tashkent e che sembrano essere il componente pricipale delle cene uzbeke. A conferma di ciò il cameriere è piuttosto stupito quando gli chiediamo cosa c’è da mangiare, come se fosse ovvio che ci sono solo quelli. Gentilmente ci indica i vassoi di sashlik già assemblati e pronti per essere cotti che giacciono sul tavolo di fianco alla griglia. Naturalmente ce ne sono di diversi tipi e così andiamo a sceglierceli: bovino, capra, uno che sembra una salsiccia con carne mista e uno fatto solo con pezzi di grasso. Sarei tentato da quest’ultimo ma per amore delle mie arterie lo evito. Il cuoco ci vede e accetta di buon grado di farsi scattare una foto, anche se l’espressione con cui viene nella foto non è decisamente delle migliori.
Ordiniamo anche qualcuna delle tipiche salse a base di pomodoro ed erbe fresche, pane e stavolta niente tè ma una birra. Mangiamo a sazietà e la carne è veramente ottima, ben cotta e ben condita con spezie che non riesco ad identificare. Non penso tuttavia che sia stata marinata prima di cuocerla. Il conto è forse leggermente gonfiato visto che siamo turisti, ma è pur sempre un prezzo equo e paghiamo senza obiettare. L’unica cosa che mi dà fastidio è che non riesco a levarmi la sensazione di unto che ho sulla faccia. Sulla via del ritorno troviamo un gruppetto di signore che chiacchierano davanti alla porta di una delle case. Ci fermano per chiederci da dove veniamo e ci dicono di aspettare un attimo che chiamano la figlia della padrona di casa visto che parla inglese. La ragazza che arriva parla effettivamente inglese e ci spiega che ha studiato per un periodo proprio a Roma. Ci sembra incredibile e passiamo così del tempo a parlare con lei, metà in in inglese e metà in russo. Lei e le altre signore ci raccontano come vivere qui non sia molto facile, i prezzi sono sempre più alti e il lavoro spesso scarseggia, sono in molti quelli che vorrebbero andare all’estero, ma sono pochi quelli che ci riescono o che possono permetterselo. Scherzando, ma forse non troppo, una delle signore ci dice che potrebbe farci conoscere sua figlia. Forse non vivono nelle migliori condizioni possibili e le loro prospettive non sono delle più rosee, ma sono un gruppetto allegro, si capisce subito che non vivono una vita facile ma nonostante tutto cercano di andare avanti con un sorriso. Stare qui con loro a parlare in modo così semplice e spontaneo mi scalda il cuore e mi dà l’ennesima conferma che alla fine, dovunque uno vada, i desideri delle persone sono gli stessi: vivere una vita dignitosa, dare il massimo delle possibilità ai propri figli, non perdere la speranza nel futuro. Non siamo così diversi come si può pensare. Salutiamo queste adorabili signore e torniamo in ostello. Una tazza di tè e una sfida a scacchi tra Alessandro e Jan chiude la nostra giornata e ci lascia impazienti di vedere cos’altro ci riserva la magica Samarcanda il giorno successivo.
Per approfondire:
https://it.wikipedia.org/wiki/Samarcanda
https://en.wikipedia.org/wiki/Registan
Francesco Ricapito Gennaio 2016
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