La storia della “Democrazia” è innanzitutto la storia di un’idea, a partire dalla Grecia antica ai giorni nostri, che ha fatto discutere da sempre sul modo di intenderla, se vi sia la necessità di un sistema democratico, sul fatto se sia davvero concretizzabile oppure una mera utopia. Massimo L. Salvadori, con questa sua opera, ha scelto di tracciare un “percorso in quanto mito e in quanto realtà”, con riferimento in particolare ai pensatori classici che hanno fatto oggetto della loro riflessione la democrazia, sia stati essi suoi fautori, oppure critici e avversari” (pp.XVI). Un percorso che giunge ai giorni nostri, dove magari i grandi pensatori non abbondano, ma dove l’idea di democrazia è stata studiata attentamente soprattutto in un Occidente che in linea generale si definisce democratico e in cui poi è la realtà a contraddire in maniera clamorosa la teoria. La liberaldemocrazia, che si credeva aver trionfato nei confronti del sistema totalitario comunista, è profondamente in crisi, affetta da una malattia che, secondo Salvadori, si è manifestata soprattutto a partire dagli anni settanta, inoculata da coloro che proprio della liberaldemocrazia, seppur nella sua versione conservatrice, si erano fatti paladini: “il montare dell’ondata neoliberista […] ha creato il terreno più favorevole all’affermarsi del potere delle oligarchie economiche sovranazionali, che hanno svuotato il potere decisionale degli Stati nazionali, dei loro governi, dei loro parlamenti. Così al celebrato trionfo e sacralizzazione ideologica della democrazia, le cui istituzioni sono rimaste ancorate entro i confini dei singoli Stati, si è accompagnato di fatto il suo sempre più grave indebolimento” (pp.459). Una crisi che in fondo risponde ad un dilemma irrisolto e che la cosiddetta globalizzazione ha amplificato a dismisura: “la democrazia […] da un lato si fonda sul principio che il potere debba appartenere all’insieme del popolo; dall’altro l’esperienza offerta da tutti i regimi definiti democratico liberali dice che questo insieme non può esprimersi e agire se non per mezzo delle élites che lo dirigono, lo rappresentano, e anche lo manovrano” (pp.493). Se la democrazia liberale è sofferente, forse moribonda – i detrattori ritengono che in realtà non sia mai nata – lo sguardo di Salvadori, come anticipato, si è concentrato in particolare sui pensatori del passato: poteva uscirne fuori un’opera prolissa ma così non è stato. Il volume è evidentemente corposo, ma questa disamina, che parte da Solone e giunge a Olof Palme, ha il pregio di un linguaggio chiaro, una via di mezzo tra accademia e divulgazione, e soprattutto caratterizzato da un’ottima capacità di sintesi. Questa lunghissima storia dell’idea di democrazia – in sostanza è preso in esame un periodo di 2500 anni – non ci consente di sintetizzare in maniera puntuale tutti i capitoli del saggio. Possiamo però cogliere alcuni aspetti della democrazia degli antichi fino ad ora forse poco noti; e alcuni autori, spesso autentici giganti del pensiero, che si sono rivelati sorprendentemente lungimiranti. Senza alcun intento di esaustività possiamo ricordare, ad esempio, le controversie sulla democrazia di Pericle, che alcuni studiosi considerano in realtà una sorta di principato, mentre secondo Salvadori quel sistema non era altro che un accettabile compromesso tra i “ricchi che possedevano le maggiori competenze ed esercitavano sostanzialmente il potere e i poveri che, principalmente mediante la partecipazione all’assemblea, disponevano di un sostanziale potere di controllo” (pp.15). Il viaggio nei secoli continua fino al medioevo nel quale “la democrazia in quanto concetto e tanto più in quanto realtà attinenti ai rapporti politici e sociali rimase un qualcosa di sostanzialmente estraneo” (pp.38), tutt’al più attinente ad una forma di governo propria dell’antichità. Parziale eccezione con Marsilio, la cui concezione della sovranità popolare in qualche modo anticipò le teorie liberali e democratiche del Seicento e del Settecento. Teorie che a volte ci appaiono anticipatrici di degenerazioni molto vicine a noi. Pensiamo ai babuvisti che dovevano affrontare il problema dei mezzi atti a fondare una società egualitaria e democratica: “la soluzione fu la dittatura di una minoranza concepita come levatrice della società giusta. Sotto questo profilo essi furono gli eredi del giacobinismo e gli anticipatori prima del blanquismo e poi del marxismo e del leninismo” (pp.169).
Di grande interesse il capitolo dedicato all’avvento della democrazia negli Stati Uniti e in particolare alla figura di Jefferson: “considerava la marcia della democrazia quale frutto dei processi dell’istruzione, della diffusione dei lumi della ragione, della scienza e delle virtù civiche” (pp.180); mentre già agli inizi dell’800 Taylor riuscì a cogliere una serie di minacce presenti nella società americana: “il centralismo derivante dal troppo potere affidato al presidente dell’unione e alla sua amministrazione; il crescente predominio delle minoranze capitalistiche che tendevano a formare una potente aristocrazia del denaro; la manipolazione del voto popolare da parte di piccole oligarchie organizzate” (pp.182). Completano il quadro americano le parole di Tocqueville, da Salvadori considerato anche nei suoi aspetti più contraddittori, ma che, ancora una volta, mostrano una particolare lungimiranza: “nella realtà gli uomini più notevoli sono raramente chiamati alle funzioni pubbliche”. Il motivo? “Le classi inferiori, anche quando mirano al bene pubblico, non sono in grado di valutare quali siano i mezzi per conseguirlo e danno sovente fiducia ai ciarlatani” (pp.207). Sempre nel contesto americano viene ricordato il pensiero di William Graham Sumner, un convinto sostenitore del liberismo, che però denunciava “il consolidarsi del potere indebito di quella che definiva tout court una plutocrazia, la quale, facendo leva sulla speculazione finanziaria e sulla propria ricchezza, corrompeva il potere politico e lo piegava ai propri interessi al punto di mettere in pericolo la libertà” (pp.223). Parole di un liberista dell’800 che contribuiscono a sfatare la superficiale correlazione liberismo- neoliberismo, tipica di coloro che, non si sa quanto in buona fede, tendono a mettere in un unico calderone concezioni del mondo in realtà molto diverse. La storia dell’idea di democrazia giunge poi a Mazzini (“per una democrazia sociale ma pluralistica”), che nelle pagine di Salvadori appare davvero come un gigante del pensiero: secondo il patriota e filosofo italiano, fermo restando che l’individuo è sacro, che i suoi interessi, i suoi diritti sono inviolabili, “bisognava evitare di porre i diritti dell’individuo come unico fondamento all’edifizio politico, poiché ciò avrebbe significato legittimare una forma di lotta di tutti contro tutti” (pp.260). Altri passaggi dai quali si scorgono illuminanti anticipazioni del presente li troviamo nell’analisi dell’autore di “La politica come professione” e quindi del suo “capo carismatico”: “mentre esalta la figura del capo, Weber ne squalifica la figura nel caso in cui questi ceda al peccato contro lo spirito santo della sua professione, vale a dire il peccato della vanità, all’autoesaltazione puramente personale, alla rinuncia a servire una causa, cedendo al desiderio del potere per il potere: condizione che sopravviene allorché il capo non è ispirato da una fede” (pp.342).
Contraddizioni di presunte democrazie che Salvadori ha evidenziato anche grazie al pensiero di Kelsen sul bolscevismo: il suo peccato capitale sarebbe stato quello di “voler presentare una dittatura di partito come una libera autodeterminazione politica di un popolo libero” (pp.373). Ed inoltre: “Il paradosso del comunismo passato dall’invocazione della democrazia nella sua forma più radicale e dell’uguaglianza universale alla loro soppressione è che dopi la rivoluzione bolscevica del 1917 quei valori e fini animarono sinceramente generazioni di semplici militanti e di capiti comunisti sia nei paesi in cui questi andarono al potere sia nel resto del mondo. Non si comprendono le ragioni di una tale fedeltà all’ideale se non in relazione all’ostilità suscitata dai delitti commessi dal capitalismo” (pp.399). Dal crollo di quel sistema totalitario, pur in presenza di residuali e ancora amatissime mummie, l’analisi di Salvadori giunge ai giorni che Fukuyama ha definito di “fine della storia”, ovvero ai giorni del trionfante neoliberismo (non certo il liberismo classico). Prendendo atto di questa situazione, dove le oligarchie finanziarie la fanno più che mai da padrone e la democrazia appare più che mai un mito e un qualcosa di meramente formale, tutte le considerazioni finali presenti dell’opera sembrano concentrarsi sugli strumenti utili per giungere ad una sorta di “riconquista democratica”. Vista la rabbia spesso irrazionale degli elettori, e vista la fuffa dispensata da premier giovani e ignoranti che aspirano a “partiti pigliatutto”, la soluzione immaginata da Salvadori sembra andare in qualche modo controcorrente: “l’obiettivo può essere conseguito unicamente attraverso la rinascita di solide organizzazioni innanzitutto partitiche in grado di rappresentare, difendere gli strati sociali più deboli e farne valere gli interessi. Quel che si deve ammettere è che il barometro non tende al bello” (pp.493).
Edizione esaminata e brevi note
Massimo L. Salvadori, professore emerito dell’Università di Torino, ha insegnato Storia delle dottrine politiche. Autorevole commentatore del quotidiano «la Repubblica», è autore di numerosi volumi tra i quali ricordiamo: Potere e libertà nel mondo moderno (Laterza, 1996); Democrazie senza democrazia (Laterza, 2009).
Massimo L. Salvadori,“Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà”, Donzelli (collana Saggi. Storia e scienze sociali), Roma 2015, pp. XVIII-512
Luca Menichetti. Lankelot, marzo 2016
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