Saviano Roberto

Gomorra

Pubblicato il: 25 Febbraio 2007

“Tutti quelli che conosco o sono morti o sono in galera. Io voglio diventare un boss. Voglio avere supermercati, negozi, fabbriche, voglio avere donne. Voglio tre macchine, voglio che quando entro in un negozio mi devono rispettare, voglio avere magazzini in tutto il mondo. E poi voglio morire. Ma come muore uno vero, uno che comanda veramente. Voglio morire ammazzato”.

E’ la lettera di un giovanissimo detenuto, o meglio di un bambino entrato nel “sistema”, fedelmente riportata in “Gomorra”, che più di ogni altra cronaca criminale ci mostra l’evoluzione (o involuzione) avvenuta in terra di camorra.
In realtà tra gli affiliati ai vari clan e presso i loro sudditi è proprio il termine “camorra” che non si usa più, soppiantato dal più coerente “Sistema”: al bando romanticherie d’altri tempi, l’unico scopo del potere criminale è l’affermazione economica e finanziaria di una potenza militare che ha saputo vestire i panni del comitato d’affari. Ad una prima lettura superficiale sembrerebbero affermazioni scontate, ma non lo sono affatto, vuoi per l’ampiezza del fenomeno, vuoi per quella informazione drogata e reticente, marchio del nostro accomodante giornalismo: inevitabile che poi la percezione di quanto è accaduto e accade sia dai più distorta e minimizzata. “Gomorra”, opera d’esordio del ventottenne Roberto Saviano, è anche uno straordinario successo editoriale, che, come è stato giustamente scritto, “ha il rigore di un saggio e l’anima di un romanzo”. Un successo di pubblico più che di critica, nonostante il premio Viareggio “Repaci”, il premio Giancarlo Siani, il premio “Stephen Dedalus”: inizialmente grandi entusiasmi, la prestigiosa sponsorizzazione di Enzo Siciliano (“non è solo un bel libro; questo ragazzo rischia la vita”) ma poi quando il numero di copie vendute si è fatto imponente, ecco i primi distinguo e le prime bordate. A parte un Sanguineti come al solito poco indulgente (“Non ho letto Gomorra. Ne ho ascoltato alcuni brani durante una lettura pubblica dell’autore e francamente non ne ho avuto una grande impressione. Parlerei non tanto di una letteratura che torna al reale ma di una realtà che si fa racconto; ovvero di un piegarsi modaiolo al reale”) colpiscono le affermazioni di Rosanna Bettarini filologa fiorentina e neopresidente del premio Viareggio, intervistata da “Sette” del Corriere della Sera: “Gomorra mi interessò moltissimo, ma qua e là mi sembrava sopra le righe, come se si volesse forzare le tinte su una materia in parte già nota”. rese di distanza, riconsiderazioni in negativo, che a qualche malfidato hanno fatto tornare alla mente le parole di Corrado Alvaro: ” L’invidia ha gli occhi e la fortuna è cieca”.

Intendiamoci: alcune delle obiezioni rivolte a “Gomorra” hanno un loro fondamento, ma per lo più si tratta di voci che spesso peccano di astrattezza e di poca attenzione per un’opera da valutarsi nel suo complesso, che si propone come saggio e che per lo più è stato recensito come un romanzo…

Si dice, a mo’ di critica, che il libro tratta “una materia in parte già nota”. E’ vero che a rigore Saviano quando si limita a raccontarci delle guerre di camorra, dei personaggi più pittoreschi e più feroci gravitanti nell’area campana, non scopre nulla di nuovo, pur dalla sua posizione privilegiata di ricercatore dell’Osservatorio della camorra e dell’illegalità. Ma è vero soprattutto che molte di queste vicende sono rimaste sconosciute alla cosiddetta opinione pubblica e spesso confinate nelle pagine interne dei quotidiani nazionali. Bisogna prendere atto che il nostro surreale giornalismo vive di Veronica e delle sue paturnie per una dignità riscoperta un po’ in ritardo, dell’indispensabile ex premier “nonno dolcissimo” (dal Tg5), del perenne pollaio governativo: praticamente è la cronaca di un rassicurante e consolatorio gossip; il giornalismo d’inchiesta, sovrastato dalle bufale e dagli agenti betulla, ha vita grama.

Ed anche l’accusa rivolta a Saviano di aver abusato di tinte forti e di un linguaggio urlato non è decisiva per negare i meriti di “Gomorra”: lo stile del nostro esordiente qua e là risulta smozzicato, fatto di frasi molto brevi, forse troppo, immaginifiche, ma da parte di chi ha visto e vissuto tutto questo, di fronte agli abomini di un sistema del genere come non lasciarsi andare allo sconforto e all’ira più feroce? Certamente, al di là di uno stile e di una struttura quanto meno discutibile, al lettore più smaliziato potrà rimanere l’impressione di un’opera costruita con episodi romanzati, fatti per colpire allo stomaco e procacciarsi un facile consenso.

Una mossa furba piuttosto che sincera? Non sono in grado di saperlo e probabilmente non riuscirete a capirlo neppure voi. Ma torniamo alle vicende che ammorbano la nostra Italia. E’ sufficiente che vi descriva le linee essenziali che caratterizzano il lungo viaggio di “Gomorra” da Napoli, alla Campania, al suo entroterra, al mondo intero. Quella malavita che si nutre di sangue, droga e appalti ci appare da subito nel porto di Napoli: merci fresche, provenienti per lo più dall’oriente e che, sotto le forme più svariate – plastica, abiti griffati, orologi – per essere occultate ed inviate verso altri luoghi di raccolta, passano da giganteschi container ad enormi palazzi appositamente svuotati di tutto. Poi gli stupefacenti, che i clan, nella loro lungimiranza imprenditoriale e prima di altri, hanno reso di uso comune grazie al commercio a dettaglio della cocaina, soppiantando l’obsoleta eroina, la droga di quei disperati, usati al più come cavie per valutare i migliori tagli di roba. Merce sono gli abilissimi sarti al servizio delle organizzazioni nate per produrre griffe “vere-false”; i manovali dell’edilizia, lavoranti in nero, i quali, se feriti gravemente durante una delle loro massacranti corvè, sanno bene di avere il destino segnato: liquidati senza troppi complimenti, i loro corpi saranno eliminati e bruciati simulando falsi incidenti stradali, oppure troveranno alloggio nel fondo di qualche pozzo. Merce sono anche quelle scorie chimiche, le morchie e i fanghi velenosi, le ossa cimiteriali, provenienti da tutta Italia e tutta Europa, che vengono interrate nella premiata discarica Campania: gli stessi boss, che su quei terreni hanno edificato dacie russe e ville sontuose in stile hollywoodiano, non solo non si preoccupano dell’avvelenamento del prossimo e di coloro che si prestano a sotterrare il pattume tossico, ma, sulla scorta dell’adagio fatalistico “vita e morte per me è ‘a stesa cosa” non dimostrano particolare attenzione nemmeno per la propria incolumità. Altre sono le priorità: dimostrare il loro potere e testimoniarlo con un imponente dispiego di simboli, soprattutto cinematografici, ispirati ai gangster di Tarantino e di De Palma, al Tony Montana di Scarface, al Corvo di Brandon Lee; tutto sempre mediato e adattato dal proprio essere campani “anema e core” anche nell’omicidio: (“In America si spara gonfiandosi col rap, i killer di Secondigliano andavano ad uccidere ascoltando canzoni d’amore”) .

Allora possiamo capire il perché di ville “perle di cemento, protette da mura e telecamere”, sontuose, fatte “di marmi e parquet, colonnati e camini con le iniziali dei boss incise nel granito”. “Si racconta a Casal di Principe che il boss aveva chiesto al suo architetto di costruirgli una villa identica a quella del gangster cubano di Miami, in Scarface” (pag. 267). In questo senso non è stato il cinema a prendere spunto dalla realtà ma la realtà criminale ad ispirarsi ai miti della celluloide (“Le guardaspalle delle donne boss sono vestite come Uma Thurman in Kill Bill: baschetto biondo e tute giallo fosforescente” – pag. 274). Saviano ci racconta la guerra di Secondigliano, la donne di camorra, la morte di Annalisa Durante, l’ascesa del gruppo Di Lauro, la guerra tra clan emergenti, quella che ha generato oltre 80 morti in poco più di un mese, le imprese dei nuovi boss – tra i tanti Nunzio De Falco, e poi Gennarino McKay, Sandokan Schiavone, Cicciotto di Mezzanotte, Ciruzzo ‘o Milionario (i loro soprannomi sono diventati marchio distintivo, tale da far dimenticare nomi e cognomi) – la loro impressionante espansione imprenditoriale e criminale in tutto il mondo: organizzazioni che, originate nel napoletano, nel casertano, da Secondigliano a Casal di Principe, accresciute a dismisura grazie a traffici illeciti, e che poi, con questi proventi macchiati di sangue, possono arrivare a finanziare attività del tutto lecite; un alternarsi e un intrecciarsi di legalità-illegalità a seconda delle contingenti opportunità imprenditoriali.

Qui la differenza con Cosa Nostra e il motivo per cui, nel silenzio dei media, la camorra, o meglio il “sistema” ha superato le organizzazioni mafiose per affiliati e giro d’affari: i nuovi boss della Campania criminale si considerano imprenditori, costi quello che costi, non aspirano a costruire, mediante una Cupola, un dispendioso Stato parallelo, ma nello Stato vivono e proliferano, ora usando la politica, ora contrastandola. Ma “Gomorra” è anche un tributo, pur da parte di chi non ha mai avuto a che fare con la religione, a Don Peppino Diana, coraggioso prete anticamorra, ucciso in quel di Casal di Principe da chi non poteva più tollerare un sacerdote che faceva nomi, cognomi, invitava i fedeli a ribellarsi ad un “sistema” di morte e sopraffazione; proprio quel Don Peppino Diana che, dopo la sua cruenta esecuzione, fu infamato da compiacenti organi di stampa locali (titoli di giornale: “Don Diana era un camorrista”, “Don Diana a letto con due donne”).

La novità di “Gomorra”, il valore aggiunto rispetto a quanto (teoricamente) si poteva già conoscere dalle scarse notizie di apparse sugli organi di informazione (tanto per dire lo svolgimento di maxi processi nei confronti di decine di camorristi non hanno fatto notizia), e nonostante le diffidenze della Rossana Bettarini , sta proprio nelle descrizioni di episodi criminali vissuti in prima persona dall’autore, senza il filtro dei rapporti di polizia, presente sul luogo degli agguati camorristici, attento osservatore dell’ambiente degradato in cui prolifera il “sistema”: Saviano quale una sorta di infiltrato, di novello Donnie Brasco, si è accompagnato a personaggi che di questo sistema erano e sono ingranaggi. Da qui quelle confidenze, fedelmente riportate nella sua opera d’esordio e presumibilmente motivo scatenante di quelle minacce che gli hanno cambiato la vita: per lui che ha osato fare nomi e cognomi e che ha tentato di spiegare il fortissimo radicamento del “sistema” nella società campana, intimidazioni tali da indurre le autorità ad assegnargli una scorta, rinnegato dai genitori, un fratello che è stato costretto a trasferirsi al nord. I distinguo di parte della politica locale, le accuse di strabismo e fanatismo, il fastidio per una denuncia che smonta quell’immagine positiva che alcuni sindaci hanno voluto dare delle proprie comunità, i famigli dei boss che si fanno vivi presso alcuni quotidiani locali, iniziative anticamorra che rimangono oggetti misteriosi, ignorati dai citati mezzi di (dis)informazione, sono cronaca di questi giorni. In attesa di vedere se qualche sussulto di coscienza potrà essere mantenuto fermo nel tempo e non presto dimenticato, dopo aver dispensato le consuete frasi di circostanza, dobbiamo registrare le mobilitazioni della cosiddetta società civile (http://www.sosteniamosaviano.net/) e le dimostrazioni di solidarietà da parte di colleghi come Sandrone Dazieri, Massimo Carlotto, Giancarlo De Cataldo (“denunciamo un isolamento fatto da ciò che non ti fanno e che vogliono farti credere ti faranno. Ma intanto ti fermano, creano diffidenza intorno, screditano, insultano, allontanano tutti dalla tua vita perché mettendo paura ti creano attorno il deserto. A questo punto devono venire fuori altre voci…Quando Saviano ha cacciato con le sue parole i boss dalla piazza di Casal di Principe e dalle vie di Secondigliano, quando ha raccontato il loro potere con la letteratura, quando ha fatto i nomi, quando accompagna il suo libro non è solo la sua voce a parlare. Lui lo ha detto e noi con lui”).

L’ultima frase del libro è anche il nostro augurio per il futuro del nostro giovane cronista e scrittore: “Maledetti bastardi sono ancora vivo!”.

Edizione esaminata e brevi note

Roberto Saviano, nato a Napoli nel 1979, si è laureato in filosofia all’Università degli Studi “Federico II”. Ricercatore dell’Osservatorio sulla Camorra e l’illegalità, collabora con l’Espresso, il Manifesto e il Corriere del Mezzogiorno. Prima del successo di “Gomorra”, alcuni suoi articoli e racconti sono stati pubblicati su Nuovi Argomenti, Lo Straniero, Nazione Indiana, Sud, e si trovano in antologie quali “Best Off. Il meglio delle riviste letterarie italiane” (Minimum Fax 2005), e “Napoli comincia a Scampia” (L’Ancora del Mediterraneo 2005).

Roberto Saviano – Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra.
Mondadori “Strade blu”- I ed. aprile 2006 – pag. 334 – euro 15,50

Recensione già pubblicata su ciao.it il 6/2/2007 e qui parzialmente modificata.

Luca Menichetti, lankelot febbraio 2007