Hedayat Sadeq

La civetta cieca

Pubblicato il: 28 Maggio 2020

La civetta cieca (Carbonio Editore, 2020 – Traduzione e cura di Anna Vanzan) è un’opera folgorante e misteriosa, perturbante e labirintica. Opera fondamentale del modernismo persiano, partorita dalla mente lacerata di Sadeq Hedayat, senz’altro uno degli scrittori moderni iraniani più importanti. Morto suicida a Parigi nel 1951, Hedayat mostra il profilo di una personalità scissa, solcata da sofferenze profonde. Il romanziere francese Mathias Enard, che nel segno di Hedayat costruisce il suo bellissimo Bussola (Edizioni e/o, 2016 – trad. Yasmina Melaouah) lo descrive così: “Hedayat aveva una di quelle ferite del sé che fanno andare nel mondo barcollando, e quella incrinatura si è poi aperta fino a diventare una crepa; e come nell’oppio, come nell’alcol, come in tutto ciò che ti apre in due, non si tratta di una malattia ma di una decisione, la volontà di spezzare l’essere, fino in fondo” (p.15). E ancora: “Oggi a Teheran le sue opere vivono come lui morì, nella miseria e nella clandestinità, sulle bancarelle dei mercati delle pulci o in riedizioni tagliate, espurgate di ogni allusione che possa indurre il lettore alla droga o al suicidio, a salvaguardia della gioventù iraniana a tal punto minata da quelle malattie della disperazione che sono il suicidio e la droga che quando può si getta proprio sui libri di Hedayat…” L’attacco dell’opera, fulminante e dal chiaro sapore kafkiano (Kafka sul quale Hedayat studiò molto), ci scaraventa subito, violentemente, dentro al solco profondo dell’anima dello scrittore: “Nella vita ci sono malanni che come lebbra, nella solitudine, lentamente mordono l’anima fino a scarnificarla. Non è possibile parlare con altri di queste sofferenze […] Scrivo unicamente per la mia ombra, che si allunga sul muro seguendo la luce della lampada: è a lei che mi devo presentare”.

Per la prima volta viene tradotto direttamente dal persiano (la precedente edizione Feltrinelli arrivava dall’inglese) grazie alla curatela impeccabile di Anna Vanzan, che in Prefazione avvisa: “qui si entra da subito in uno stato ipnotico… non resta che abbandonarsi alla narrazione, fra scenari malati e altri pieni di lirica bellezza”. Due parole sulla trama, che più che una trama romanzesca, è in verità un vortice narrativo dentro cui si precipita. Un oppiomane pittore di astucci portapenne rimane stregato dallo sguardo di una fanciulla, un’immagine apparsa fugacemente alla sua finestra e poi svanita. Inizia a compiere dei giri a vuoto intorno alla sua casa e dentro gli spazi geometrici di una città deformata, atemporale, espressionista, in cerca di quegli occhi che lo hanno incantato. Poi, magicamente, quella fanciulla se la ritrova sul letto della sua stanza, morta. Un vecchio dalla continua risata inquietante lo aiuterà a seppellirla. Poi c’è uno stacco, un burrone spazio temporale in cui cade la narrazione per riprendere in un tempo e in uno spazio diverso dove le stesse figure (l’io narrante, la fanciulla e il vecchio) riarticolano una nuova trama, simile ma diversa fatta di sottili scarti, di ripetizioni, variazioni, modulazioni.

Dentro La civetta cieca si ha la sensazione di trovarsi in una sorta di labirinto mentale e pulsionale, incastrati in un tempo circolare e ripetitivo dove regna l’eterno ritorno dell’uguale, ma con quasi impercettibili e spiazzanti variazioni. Le immagini che ritornano (l’anziano, la fanciulla, il ruscello, i fiori) non sono icone a cui si riesce a dare un significato, ma vuoti simulacri, maschere del nulla, angoscianti, tormentose ed evanescenti. Molte parti del testo sembrano frutto di un delirio febbrile, un ragionamento dentro la zona grigia fra la vita e la morte, affumicato dall’oppio e dal vino. Gli spazi fisici assumono i caratteri dell’allegoria (la stanza è una tomba, le finestre sono occhi sul mondo), gli spazi urbani sono decomposti in forme geometriche caleidoscopiche e allucinatorie, quasi visioni lisergiche. Il tempo confonde il prima e il dopo in movimenti circolari o a spirale: ciò che viene raccontato prima potrebbe essere avvenuto dopo, quasi come se fra la prima e la seconda parte del racconto fosse avvenuta una metemspiscosi verso il passato, verso una vita precedente. Lo sguardo della fanciulla che aggancia l’animo errabondo dell’io narrante fa pensare a una Vita Nova esistenzialista, espressionista, novecentesca, privata ormai d’ogni dimensione beatificante; subito più avanti regnano atmosfere che fanno pensare al canto XIII dell’Inferno dantesco, alle “fronde di colore scuro”, ai “rami nodosi e ‘nvolti” e infatti l’ombra lunga del suicidio, del “sangue bruno” della morte, incombe su tutto il breve romanzo che rimane fra le mani come un piccolo gioiello letterario, inquietante e profondissimo, capace in poco spazio di scavare abissi mentali pregni di dolore e angoscia ma anche di maledetta bellezza.

Edizione esaminata e brevi note

Sadeq Hedayat (Teheran, 1903 – Parigi,  1951) è stato tra i massimi intellettuali  iraniani del XX secolo. Di famiglia nobile, frequentò un liceo francese a Teheran, per poi trasferirsi in Belgio, a Parigi e successivamente in India. Studioso della letteratura occidentale, della storia e del folklore dell’Iran, tradusse numerose opere in persiano e fu autore di romanzi, raccolte di racconti, saggi critici e opere teatrali. Morì suicida a Parigi. Pubblicato a Bombay nel 1936, La civetta cieca poté cominciare a circolare in Iran soltanto nel 1941, dopo l’abdicazione di Reza Shah Pahlavi, e tuttora subisce  una forte censura in patria.

Sadeq Hedayat, La civetta cieca, traduzione e introduzione di Anna Vanzan, Carbonio, 2020

Francesco Marilungo, 28 maggio 2020