L’arte della fuga è, come scritto nell’aletta della retrocopertina, l’ultimo libro di una trilogia che comprende L’arte di collezionare mosche e Il re dell’uvetta. Il suo autore, Fredrik Sjöberg, è scrittore, entomologo, giornalista, birdwatcher, collezionista e, per quel che ho capito leggendo questo libro – il primo dei suoi che leggo – persona estremamente curiosa delle vite delle altre persone, dei legami quasi invisibili che le legano, oltre che un appassionato di arte e di acquerelli.
L’arte della fuga è dedicato a un pittore paesaggista svedese noto negli Stati Uniti e scarsamente conosciuto in Svezia (e altrove), in cui l’autore si è imbattuto per caso curiosando tra le opere di una casa d’aste e trovando un quadro per lui interessante. Deve solo convincere la moglie per tentare l’acquisto e dopo la prima reazione della donna non troppo accomodante (“«Vuoi comprare quella roba lì?»” pag. 17) riesce a andare all’asta. Nonostante il prezzo di partenza allettante diventa presto troppo alto per Sjöberg, che avendo però già fatto alcune ricerche sull’artista, Gunnar Widforss, decide di andare a chiedere al compratore la possibilità di visionare l’opera, di fotografarla, nella prospettiva di scrivere un libro sull’autore.
Quando il compratore risponde di essere solo un intermediario e che il quadro è diretto negli Stati Uniti Sjöberg si incuriosisce ancora di più e quella che aveva inventato come scusa – l’ipotesi di un libro – diventa proposito reale. Inizia così a approfondire la storia del pittore, cercandone tracce prima in Svezia, tra parenti rimasti e articoli di giornale, quindi negli Stati Uniti, dove Widforss aveva trascorso gli anni migliori come artista e era diventato famoso come pittore dei grandi parchi nazionali (anzi, si può dire che la sua ascesa coincise con quella dei parchi, tanto che in rete si trovano articoli come “the forgotten artist who made the grand canyon famous”) e in special modo del Grand Canyon, dove un monte e il sentiero che arriva alla cima portano il suo nome.
La narrazione di Sjöberg è avvolgente, tra ricordi giovanili e notizie riguardanti il pittore, tra i racconti delle persone che incontra o a cui telefona per avere informazioni e gli aneddoti sui personaggi incontrati da Widforss e che hanno influito, più o meno direttamente, sulla sua storia e formazione e fortuna. A chi si avvicina a questo libro devono piacere le digressioni, perché ogni pagina fugge altrove. Widforss ha viaggiato dalla Russia all’Africa all’Italia, alla Francia, a quasi tutti gli Stati Uniti, e per ogni tappa l’autore sembra perdersi in piccole storie che, a ben vedere, concorrono a creare una visione migliore dell’artista e del tempo e dei luoghi in cui ha vissuto.
Ne esce l’immagine di un uomo che per tutta la vita ha cercato qualcosa e che l’ha infine trovata nel Grand Canyon: la luce. La luce, per chi dipinge con gli acquerelli, è quella della carta che usa. Ogni colore che utilizza toglie luce. Non ci sono pennellate di bianco. Per la luce (e forse non solo per quello, d’altronde il titolo del libro non è casuale) Widforss gira mezzo mondo: un cercatore che cammina per trovare il luogo giusto, un pescatore che attende il momento (se il tempo non è buono per un acquerello ci possono volere settimane). Negli Stati Uniti – cui giunge una prima volta nel 1906 ma da cui riparte l’anno successivo per poi tornare e stabilircisi, definitivamente, nel 1921, in teoria come tappa intermedia per andare in Giappone – riesce a farsi un nome grazie al suo studio e alla sua arte e anche, viene da pensare mentre si legge, per le sue capacità relazionali: una persona che ispirava fiducia, molto generosa, gentile, e che non dimenticava le persone a lui care (sempre la storia del titolo). Nonostante una buona fama alternò periodi molto buoni con altri pessimi, anche perché non era un gran gestore dei propri guadagni, né per certi versi del proprio lavoro: i suoi migliori amici impararono presto a non eccedere nelle lodi per i suoi migliori acquerelli perché Widforss glieli avrebbe regalati, e quando giocavano a carte invece che puntare in dollari lo facevano in pesos, di modo che l’artista non perdesse troppo.
Nel testo, così folto di digressioni e aneddoti divertenti o molto seri (ne cito alcuni che mi hanno colpito: Franklin voleva come animale simbolo degli Stati Uniti il tacchino, non l’aquila; con la storia di Widforss c’entra anche una nota catena di abbigliamento; in Svezia a quei tempi non c’era il porto d’armi e chiunque ne poteva acquistare una: un negoziante si vantava di aver sventato una tragedia vendendo a una giovane una pistola caricata con pallottole di carta: non era cosa strana che le persone entrassero in un’armeria e appena uscite, o poco dopo, si sparassero), non mancano le riflessioni sulla natura, sul ruolo che i parchi hanno svolto e svolgono tutt’ora, e basta pensare che si chiamano anche “riserve” naturali per iniziare a farsi delle domande (le riserve per i nativi americani, le riserve naturali, le riserve per gli animali selvatici – gli zoo, le riserve acquatiche etc).
Sono forse andato un po’ in là, quindi torno sul Widforss Trail, con le parole dell’autore, per concludere:
“Soprattutto negli ultimi quattro anni percorse molte volte il sentiero che stavamo seguendo noi adesso. Dipingeva i pioppi tremuli. Avevo visto parecchi di quei quadri prima di partire per gli Stati Uniti, li trovavo belli, ma forse un po’ irreali: c’era qualcosa nei colori, nella luce. Ora so. Certo, eravamo a tarda primavera e c’era ancora neve qua e là, ma sui tremuli erano spuntate le foglie: il verde in controluce e la corteccia quasi bianca cantavano le stesse canzoni degli acquerelli di Gunnar. Ogni luogo ha la sua luce. Forse è l’altezza sul mare il segreto. 2500 metri. […] La luce e il soggetto, in questo ordine. […] Il sentiero serpeggia per otto chilometri nella foresta vergine fino alla roccia di Gunnar… Quello che ci tranquillizza e che rende intensa l’esperienza è che il sentiero corre così vicino al precipizio che spesso, in qualche radura, si riesce a intravedere l’abisso, ma non di più: non si arriva mai sul bordo della vertigine, non sul Widforss Trail. Si cammina più spesso in primo piano come sotto una volta di pini centenari, su un terreno bruciato con pioppi tremuli e lupini selvatici, o attraverso il rigoglioso sottobosco di umide valli laterali. Ricchezza, varietà, nessun eccesso.” (pag. 186-187)
Edizione esaminata e brevi note
Fredrik Sjöberg. Scrittore, entomologo, collezionista e giornalista culturale, dopo gli studi di biologia a Lund ha passato due anni viaggiando intorno al mondo. Dal 1986 vive sull’isola di Runmarö, un paradiso naturale di quindici chilometri quadrati al largo di Stoccolma, dove studia le mosche, di cui è diventato uno dei maggiori esperti. La sua collezione di sirfidi è stata esposta alla Biennale d’Arte di Venezia del 2009. L’originalità della sua scrittura, che fonde letteratura, riflessione e divulgazione con umorismo e poesia, ha ottenuto successo e riconoscimenti a livello internazionale. Dopo L’arte di collezionare mosche, caso editoriale in tutta Europa e nominato da The Times «Nature Book of the Year», Iperborea ha pubblicato Il re dell’uvetta, L’arte della fuga, Perché ci ostiniamo e Mamma è matta, papà è ubriaco.
Fredrik Sjöberg, L’arte della fuga, traduzione di Fulvio Ferrari, Iperborea, 2017
ab, giugno 2020
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