C’è stata un’epoca editoriale in cui l’esordio portava con sé una sorta di aura o comunque di interesse vivace, giocato spesso anche in chiave promozionale. Penso a certi frangenti degli anni Novanta, per esempio, ricordati dagli addetti ai lavori come periodo particolarmente propizio agli esordi. Poi l’esordio quale categoria editoriale (o del marketing editoriale) sembra essersi spento o quantomeno assopito. Di recente qualcosa pare mutato, come sta cambiando per i racconti, che fino a poco tempo fa si ritenevano invendibili e che ora invece si ritengono vendibili (ossia mediamente poco vendibili) alla stregua di altri prodotti librari. Saranno cicli o andamenti sinusoidali, chi lo sa. Adelphi, con Fabio Bacà e il suo Benevolenza cosmica, è tornata a fare esordire un autore italiano sostanzialmente sconosciuto alle cronache fino all’approdo in libreria, e si suppone non abbia disdegnato l’effetto di sorpresa o meraviglia di tale mossa spiazzante. Francesco Targhetta, conosciuto per la poesia e il romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie, in un solo anno ha vinto il premio Giuseppe Berto (che di opere prime appunto si occupa) e la seconda piazza del Campiello con Le vite potenziali. Esordio in prosa è anche La mischia di Valentina Maini (Bollati Boringhieri, marzo 2020, pp. 512, euro 18,50). Anche questo è un romanzo che arriva dopo un libro di poesia, Casa rotta (Arcipelago Itaca, 2016, premio Anna Osti 2017), e dopo alcuni racconti o contributi teorici sparsi in diverse riviste. Una volta tanto ha senso dare fiducia a una fascetta editoriale – in realtà, le fascette editoriali esistono proprio in virtù di una fiducia tra editore e lettore, anche quanto millantano numeri straordinari, il punto è che chi scrive solitamente le trascura (per sostare un istante sulle fascette, resta mirabile il progetto “Vivere senza poesia” di Luca Rizzatello). In questo nastro di carta rosso Andrea Bajani sembra giocare con questa fenomenologia degli esordi scrivendo: “Ci sono scrittori che più che esordire irrompono sulla scena. Scrivono romanzi che, di colpo, sconvolgono le regole del gioco. Valentina Maini è una di questi”. Proviamo a capire quali sono queste regole del gioco e il senso di irruzione che, in effetti, quest’opera trascina con sé.
La mischia è un libro che non si legge soltanto, ma si osserva scorrere come un congegno mirabile, e non solo perché, materialmente, alterna così di frequente la font tipografica consuetudinaria della narrazione alla font speciale, simile a quella della macchina da scrivere (Courier, credo), dei verbali degli interrogatori delle forze dell’ordine – chissà poi perché, visto che le forze dell’ordine utilizzeranno dei computer come tutti. Sia detto sin da subito che questi verbali, che dal punto di vista diegetico sono fondamentali a scuotere la trama (una trama che fra l’altro vive di una curiosa e misteriosa fissità che si direbbe platonica), sono la parte più sganciata da una comune idea di narrazione, eppure saldamente connessa all’inconscio, un inconscio che svapora dalle pieghe burocratiche di quel tipo di scrittura. Inoltre, non da ultimo, questi verbali o deposizioni costituiscono spesso la parte divertente, dove slabbra magnificamente l’umorismo di un’autrice che altrove invece imbottisce i capitoli di una nota dolente dello sguardo, orchestrandola con una lingua finalmente all’altezza dei tempi e della prosa che meritano. Assomiglia a uno sguardo imbevuto di vergogna, la quale forse rappresenta il punto di partenza, l’essenza e poi l’impalcatura stessa della scrittura letteraria.
Il modo migliore per proporre la lettura de La mischia risponde ai criteri, solo apparentemente arbitrari o banalizzanti, della lista o dell’elenco: una struttura che destabilizza gli istituti della narratologia più diffusi, una moltiplicazione di punti di vista che non è cubismo scrittorio bensì uno sfaldamento del punto di presa e il suo franare come una liberazione di forze, una distribuzione del senso, un procedere che erode e gratta sempre quanto espresso appena poche pagine prima e che favorisce quel registro dubitativo di cui mi pare si sia già parlato per questo lavoro, un uso controllatissimo e sacrosantamente diffidente del discorso diretto e infine un notevole – e direi pure, senza tema di esagerazione, innovativo – lavoro su quella che un filosofo come Maurizio Ferraris chiamerebbe documentalità, cioè sulle tracce. Del resto questo è un libro di separazione e ricerche, che pure scorre su un sotterraneo filo duro di telepatia. Si torni sulla documentalità quando si affrontano i verbali già ricordati, le registrazioni audio del lavoro tra i tagliatori di valigie, le pagine di diario, la succosa lettera del direttore editoriale che potrebbe far scricchiolare le tante ipocrisie di questa piccola e conservativa industria del libro, alla quale si guarda ancora e senza motivo con troppa riverenza. Maini gioca anche la rischiosa partita metaletteraria e in questa disputa La mischia si pone anche come larga riflessione di estetica, applicata tanto alle arti visive, che qua e là ne escono massacrate, quanto all’istituto della narrazione, la quale non è afferrata nelle sue redini da una voce narrante sicura, accomodante o univoca, ma da un principio ordinatore che risponde più volentieri alle bizze dei fantasmi della mente. Ci interessa poco però sapere qual è il punto di vista dell’autrice, a questa altezza, il suo eventuale tracciato di elaborazione dell’esperienza tradotto in romanzo, perché tale tracciato potrebbe essere benissimo diluito nei diversi personaggi e, soprattutto, nelle relazioni tra questi. Diluito e disperso pertanto nel dubbio e nel dolore, molto più che nella certezza.
Volendo proseguire con l’idea della lista o dell’elenco, ne La mischia troverete il terrorismo basco dell’ETA, la Parigi della fuffa artistica, dei parchi e della metro, eroina e musica, l’amore totalizzante di Gorane per il fratello gemello Jokin, sorta di sfinge o pantera rilkiana, persino una metariflessione sul fantasmagorico mondo dell’editoria e del romanzo nella figura di Dominique Luque. Troverete – e non è mai facile parlare di questo – un romanzo che compie un cerchio intorno a una famiglia, quella di Gorane e Jokin, implicata nella storia terroristica dell’ETA, e un altro giro attorno alla famiglia che troviamo nel breve epilogo del libro, giungente dopo due poderosi parti che si posizionano come tesi e antitesi, alle quali non si presta nessuna hegeliana sintesi (il mancato applauso, desiderio profondo del batterista Jokin, sta lì a mostrarci questa mancata chiusura del circuito, sino alla fine, letteralmente). Ora, noi sappiamo bene con quale difficoltà si faccia passare la famiglia nel ruffiano tritacarne massmediologico e tematico, nel quale persino la critica letteraria purtroppo può precipitare malamente. Di fatto però, come molti grandi romanzi della tradizione nei quali il nome di famiglia è incistato già nel titolo, La mischia di Valentina Maini è un romanzo che alla storia famigliare guarda con attenzione, così come guarda con attenzione e devozione a quei pieni che sono le persone, pieni che molto spesso si trasformano in buchi (in questo caso la metafora del buco pare avere più peso, vista la centralità dell’eroina nella vita di Jokin). In un certo senso La mischia aggiorna la tradizione dei grandi romanzi sulle famiglie, e per questo motivo è, al contempo, perfettamente inserito in una tradizione e perfettamente innovativo e sganciato rispetto a questa. Questo dato di innovazione nella tradizione è un traguardo al quale pochissime opere ambiscono e che ancor meno tagliano. La bella lettura di Giacomo Raccis su “La Balena Bianca” ha evidenziato opportunamente il senso di quête attivo in tutto questo testo, mentre il notevole contributo di Camilla Marchisotti su “minima&moralia” ha insistito sin da subito su una categoria raramente utilizzata dalla critica eppure così adeguata a questa prova, cioè quella dell’emulsione narrativa. Se si parla di emulsione si parla necessariamente di dispersione, la quale, a ben vedere, opera in direzione contraria rispetto alla concentrazione della mischia del titolo. Questo contrasto di forze che agiscono in direzione pari e contraria, costituzionalmente straziante, emerge come dato primario in un libro che di continuo apre e chiude plurime valvole (linguistiche oppure di tono, registro, azione, segreto). La citata lingua è una delle sorprese di questo testo, perché non casca, non bleffa, non scodinzola come la lingua leccaculo di altri libri d’oggi, costruiti a partire dal pressostato dei social media che tentano di accontentare, in una circuitazione estetica davvero mefitica avallata dall’editoria. Invito dunque a fidarsi del fascino osceno dell’apertura casuale del libro per accertare questo fatto linguistico da soli. Tornando infine agli apparati editoriali da cui eravamo partiti, si legge nei paratesti che La mischia è un’opera polifonica. Ci è chiaro adesso perché è stata usata questa espressione, ma mi sembra figuri più aderente la suggestione della sovraincisione, ovvero di quel risultato ottenuto quando più strumenti e più parti sono registrate in tempi diversi per accompagnarsi poi in una stessa timeline, che necessariamente, per ogni libro, prevede un inizio e una fine – perché i libri sono segmenti, iniziano e finiscono, si sa ma a volte lo scordiamo, mentre a volte continuano per inerzia e con la realtà finiscono per collidere. Come sa chi ha trascorso qualche ora in una sala di registrazione, negli strati di sovraincisioni spesso si comincia proprio dalla traccia di batteria.
Edizione esaminata e brevi note
Valentina Maini è nata nel 1987 a Bologna. Ha conseguito un dottorato in Letterature comparate tra Bologna e Parigi e ha pubblicato racconti su «retabloid», «TerraNullius», «Atti Impuri», «Horizonte» e altre riviste. Alcuni suoi articoli sono comparsi su «Poetiche», «La Deleuziana», i «Classiques Garnier». Con la raccolta di poesie Casa rotta, (2016) ha vinto il premio letterario Anna Osti. Traduce dal francese e dall’inglese.
Valentina Maini, La mischia, Bollati Boringhieri, 2020, pp. 512
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