“Scriveremo: ‘Noi mangiamo molte noci’, e non ‘Amiamo le noci’, perché il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e di obiettività. ‘Amare le noci’ e ‘amare nostra Madre’, non può voler dire la stessa cosa. La prima cosa designa un gusto gradevole in bocca, e la seconda un sentimento. Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti.” p.27
Tra i grandi romanzi europei del Novecento, quelli che hanno segnato in maniera indelebile un secolo che ha vissuto in un brevissimo arco di tempo, se confrontato con le epoche storiche precedenti, due guerre mondiali, una “guerra fredda” e significative rivoluzioni tecnologiche e di costume, c’è senza alcun dubbio Trilogia della città di K. di Agota Kristof. Presentare organicamente un’opera così densa di significati, ricca di influenze storiche, politiche, letterarie, psicologiche, filosofiche ed esistenziali è un compito – mi rendo ben conto – affatto semplice, peraltro già svolto egregiamente da intellettuali, letterati e addetti ai lavori ben più ferrati in materia di chi adesso vi sta parlando per puro amore della letteratura. Questa doverosa premessa è per dire che qui non troverete una classica recensione dell’opera in questione, ma una serie di riflessioni su ciò che, alla seconda lettura, a distanza di circa vent’anni dalla prima, ha suscitato in me il capolavoro della scrittrice ungherese. Prima di condividere con voi tali riflessioni, e a beneficio di coloro che non hanno avuto ancora il piacere di leggere le pagine della Kristof, mi sembra corretto fornire delle coordinate minime per aiutarvi a immergervi nelle infinite suggestioni che restituisce quest’opera straordinaria.
Prima tra tutte il contesto. Siamo in un’imprecisata piccola città di frontiera di un imprecisato Paese dell’est Europa. Due bambini gemelli, Klaus e Lucas, vengono affidati alla nonna da una madre costretta a fuggire dai bombardamenti e dalla scarsità di cibo della grande città. Lo scenario è evidentemente quello di una guerra al suo principio, in una nazione che sta per cadere nelle mani dell’esercito nemico. Anche se, chi sono gli “amici” e chi sono i nemici non è proprio semplice delinearlo, visto che i soldati che occupano il territorio sono a loro volta degli invasori. I rapporti tra madre e nonna sono pessimi, acuiti da dolorosi eventi passati e da una conseguente lunga lontananza, tanto che l’anziana signora – in realtà una vecchia megera inaridita da ignoranza e solitudine – in un primo momento rifiuta di accogliere i gemelli con sé. Nonostante ciò la nonna decide di cedere, ottenendo una promessa di invio mensile di denaro per il loro mantenimento. La madre torna alla grande città, in attesa che il padre dei gemelli, corrispondente di guerra, ritorni sano e salvo dal fronte. Qui comincia la storia di Klaus e Lucas, costretti in principio a subire le angherie di una nonna che la gente del luogo ha ribattezzato la Strega, i quali piano piano acquisiscono consapevolezza della situazione esercitando il corpo e la mente non solo a resistere a lavori pesanti, insulti e deprivazioni assortite perpetrate nei loro confronti dalla vecchia, ma a ribaltare nell’arco di pochi mesi la loro condizione di subalternità in una situazione di controllo, e in seguito anche di potere. Il tutto sarà possibile grazie al loro ingegno, alla loro volontà, alla loro resistenza fisica e psicologica nei confronti delle durissime prove che essi stessi si autoimpongono. Il loro genio e il loro istinto di sopravvivenza li porterà, in piena adolescenza, ad estendere la loro personalissima “visione del mondo” anche al di fuori delle mura domestiche, nelle molteplici interazioni che avranno con la gente della città di K. Due gemelli inseparabili che si muovono e pensano all’unisono, tanto da sembrare un unico individuo, fino al momento in cui, nonostante la guerra continui a infuriare e il confine della piccola città sia invalicabile, non decidono di separarsi.
La Trilogia è un’opera che si compone di tre romanzi, Il grande quaderno, La prova, La terza menzogna, pubblicati nell’arco di cinque anni, tra il 1986 e il 1991. Il primo di essi, Il grande quaderno, si conclude proprio con la separazione dei due fratelli. Le tre storie hanno una struttura assai diversa tra loro, ma il romanzo vive, nel suo complesso, di una straordinaria coerenza narrativa e di una forte componente allegorica. È stato definito, e a giusta ragione, una favola nera, perché della grande tradizione – in particolare mitteleuropea e nordeuropea – di genere ne rispetta i canoni imprescindibili. Ma l’opera della Kristof non è evidentemente solo fiabesca, in quanto assembla abilmente alla sua cangiante struttura narrativa suggestioni psicanalitiche – a guardar bene più Nietzsche che Freud – e, nella sostanza, echi di quella letteratura che descrive inequivocabilmente il buio dell’anima che la guerra sovente rende più evidente che in qualsiasi altro contesto, ma che esiste a prescindere e che connota l’umanità dalla notte dei tempi. Di là dalla forma e dalla struttura narrativa, in questo senso il parallelo più calzante nella letteratura novecentesca, per profondità espressiva e valore letterario, è con Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Céline, opera nella quale, grazie all’uso efficace dell’argot, il dottor Destouches ci traghetta, per mezzo del suo alter ego Bardamu, nell’inferno dei reduci della Grande Guerra, a contatto con un’umanità misera e disperata. Se Céline aveva optato per una lingua plebea e i toni grotteschi per costruire il suo “specchio”, la Kristof sceglie invece una prosa essenziale, asciutta, in un primo momento lineare e disarmante come può esserlo il resoconto di un bambino, travestito però da adulto, o viceversa, perché è davvero complicato definire non solo l’età reale ma anche chi sia l’io narrante della Trilogia.
Altra caratteristica rilevante dell’opera della Kristof è questa sensazione claustrofobica comune ad altri grandi romanzi del Novecento. Me ne vengono in mente due in particolare, L’altra parte di Alfred Kubin e Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. La condizione in cui si muove, all’interno della città artificiale denominata Perla, il protagonista dell’unico romanzo del grande disegnatore austriaco, e quella che imprigiona nella Fortezza Bastiani Giovanni Drogo, nell’attesa di un nemico che mai si paleserà ai suoi occhi, non sono così dissimili da ciò che sembra trattenere Klaus/Lucas all’interno delle mura della città di K. Non sono né la guerra e né lo sbarramento alla frontiera a tener prigionieri i gemelli, tanto che uno dei due riuscirà a fuggire via, quanto la città stessa, in cui alla fine sceglieranno di tornare per chiudere il cerchio. Per chiudere il cerchio con un passato di dolore e di morte, con una vita che li ha confinati in una prigione prima psicologica che fisica. La più calzante definizione di questo romanzo, tra le tante che potete trovare, l’ha data sicuramente Giorgio Manganelli: “una prosa di perfetta, innaturale secchezza, una prosa che ha l’andatura di una marionetta omicida”. A mio modo di vedere dice già tutto, e non ci sarebbe bisogno di scrivere altro per invogliare il lettore ad acquistarne una copia. Per capire meglio cosa abbia ispirato Agota Kristof nel concepire questi tre romanzi in uno bisogna partire da un dato autobiografico: la scrittrice ungherese fuggì col marito e la figlia piccola dalla natia Ungheria in Svizzera, per non subire la repressione sovietica del 1956. In particolare, proprio Il grande quaderno, il testo in cui la prosa è più scarna ed essenziale, è dei tre il romanzo in cui i motivi autobiografici sono più rilevanti. Nel secondo, La prova, è Lucas, rimasto solo, che ci parla in prima persona, e che ci racconta le sue dolorose e controverse vicende, nel tempo in cui la guerra termina ma nel quale non è affatto definibile chi siano i “buoni” e chi i “cattivi”, gli invasi e gli invasori. La guerra finisce ma il conflitto interiore di Lucas si amplifica, a contatto con un’umanità ormai segnata e incattivita dagli eventi, fragile come può esserlo la vita stessa. Sovente fisicamente menomata, come lo è quella di Mathias. Non vi svelerò che ruolo abbia Mathias in questa vicenda, posso solo dirvi che la descrizione del rapporto tra Lucas e Mathias è uno dei momenti più alti della narrazione dalla Krisof. Sono forse le pagine più dolorose e toccanti dell’intera Trilogia. La figura di Mathias, bimbo storpio ma dall’intelligenza speculativa fuori dal comune, è tratteggiata dalla Kristof in modo da rendere indelebile, nella memoria del lettore, la sua breve ma significativa parentesi nella storia.
L’ultimo dei tre romanzi, La terza menzogna, già dal titolo ci suggerisce la filosofia di fondo dell’intero romanzo. Quella che Lucas ci sta raccontando è la realtà o è finzione? Oppure è la sua verità? Esistono davvero i gemelli? O esiste soltanto Lucas? O esiste soltanto Klaus? Oppure Klaus-Lucas è un solo individuo. Magari è un poeta. O forse un cantastorie. Più in generale, cosa ci sta raccontando davvero Agota Kristof? Perché ci ha voluto imprigionare, nel tempo indefinito di una lettura, nel suo labirinto senza via d’uscita? Quale immagine riflette, in definitiva, lo specchio della città di K? Nel suggerirvi queste domande, alle quali ogni lettore eventualmente risponderà a suo modo o sarà incline a formularne altre, sto semplicemente rimarcando il valore dell’opera della scrittrice ungherese. Come diceva Voltaire: “Un uomo si conosce dalle sue domande, non dalle risposte”, e questo libro – Agota Kristof – ce ne pone di domande, alle quali non potremo mai dare una risposta univoca. Ed è caratteristica dei grandi romanzi, quella di lasciarci con grandi questioni aperte, labirinti in cui cercar vie d’uscita e specchi in cui guardarci. Per provare a immaginare una possibile risposta ai quesiti lasciati sul campo da Agosta Kristof, prenderò a prestito le parole di Jorge Luis Borges, uno che di specchi, Finzioni e labirinti se ne intendeva eccome: “Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”. E ancora” Uno scrittore può concepire una favola, ma non penetrarne la morale. Egli deve essere leale verso la propria immaginazione e non verso le ovvie, effimere circostanze di una supposta realtà”.
“Mi metto a letto e prima di addormentarmi parlo mentalmente a Lucas, come faccio da molti anni. Quello che gli dico è più o meno la stessa cosa di sempre. Gli dico che se è morto, beato lui, e che vorrei essere al suo posto. Gli dico che gli è toccata la parte migliore e che sono io a dover reggere il fardello più pesante. Gli dico che la vita è di un’inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un NonDio di una malvagità che supera l’immaginazione” p.374
Federico Magi, agosto 2020.
Edizione esaminata e brevi note
Agota Kristof è nata in Ungheria nel 1935. Suo padre era un insegnante. A 14 anni Agota entra in collegio. Nel 1956 lascia clandestinamente l’Ungheria. Al tempo la scrittrice aveva 21 anni, era sposata ed aveva una bambina di soli 4 mesi. E’ destinata in Svizzera, a Neuchâtel, luogo nel quale ha vissuto fino alla sua morte. Nel 1987 pubblica il suo primo romanzo “Le grand Chaier”, a cui fanno seguito “Le previe” (1988), e la “Troisième menzogne” (1991), che confluiranno, in traduzione italiana, ne “La trilogia della città di K” (Einaudi, 1998). Dal romanzo “Ieri” (1995) è stato anche tratto il film di Silvio Soldini, “Brucio nel vento” (2001). Nel 2004 Agota Kristof pubblica “L’analfabeta“, nel 2005 “La vendetta” e nel 2006 “Dove sei Mathias?“. Sono conosciute anche alcune le sue pièces teatrali: “John et Joe” (1972) e “Un rat qui passe” del 1984. Le altre, “La chiave dell’ascensore” e “L’ora grigia o l’ultimo cliente”, sono state edite in Italia da Einaudi nel 1999. Agota Kristof muore il 27 luglio del 2011 a Neuchâtel. Sono usciti postumi: la raccolta poetica “Chiodi“, pubblicata in Italia nel 2018, e “Il mostro e altre storie” nel 2019, entrambi per le svizzere Edizioni Casagrande.
Agota Kristof, “Trilogia della città di K.”, Einaudi, Torino. Prima edizione “Supercoralli”, 1998. “Il grande quaderno”, traduzione di Armando Marchi. “La prova”, traduzione di Virginia Ripa di Meana. “La terza menzogna”, traduzione di Giovanni Bogliolo.
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