Bernhard Thomas

Il loden

Pubblicato il: 20 Aprile 2016

Sessanta volte ho letto scrive Enderer lungo le cinquanta pagine del Loden di Thomas Bernhard, racconto minore nella bibliografia italiana dell’Autore, tradotto da Ferro Milone per Theoria diciassette anni dopo la prima edizione tedesca per Suhrkamp (1971). È un giallo reticente, un po’ come lo era stato la storia dell’incesto tra i due fratelli Wölser, lei trovata morta avvelenata in una camera d’albergo di Mülbach, lui invece al limite boschivo, assiderato e coperto da due camosci. Come in quello il lettore apprende la storia da un resoconto di un dipendente della gendarmeria, così in questo legge una trascrizione, o meglio ascolta la lettura (testuale), da una coppia di incapaci sotto tutela di Enderer, dei suoi appunti scritti dopo l’incontro col signor Humer, commerciante di rivestimenti interni per bare. La vicenda si svolge a Innsbruck, lungo la Saggengasse, o meglio dalla parte superiore alla parte inferiore della Saggengasse, dove vivono e lavorano rispettivamente Humer e Enderer.

In questo piccolo gioiello, che spero Adelphi voglia ripubblicare nella sua Biblioteca minima, Bernhard aggiunge un elemento insolito nella sua produzione: la magia. Infatti, l’attrazione che prova Enderer per il cappotto in loden di Humer è la stessa che si trova nella leggenda di Carlo Magno e l’anello, così come l’ha raccontata Barbey d’Aurevilly. La realtà di Enderer è sospesa e quella che poteva essere una mattinata di lavoro su scartofie giuridiche si trasforma, a causa di una forza superiore, in un mondo in cui la forza di volontà degli uomini conta poco o nulla, e sono gli oggetti a muovere le persone e a spingerle all’azione, come in un demoniaco incantesimo.

“[…] il loden di mio zio aveva sei occhielli, subito conto gli occhielli del loden di Humer, li riconto una seconda volta, li riconto una terza, sempre dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto e penso, anche il loden di Humer ha sei occhialli, sei occhielli ricoperti di pelle di capretto nera, al che penso che si debba trattare del loden dello zio Worringer…”

I sei occhielli ricoperti di pelle di capretto nera fanno dimenticare tutto a Enderer, che si concentra solo a osservarli e a pensare allo zio Worringer che portava quel loden, quello stesso loden, non un classico loden come se ne vedono molti in Austria e sopratutto in Tirolo, verde o grigio, no, quello di suo zio era un loden speciale, quasi ingualcibile, ma soprattutto con sei occhielli in pelle di capretto nera, come quello indossato da Humer. Difficile sbagliarsi, o meglio impossibile rassegnarsi. L’avvocato divaga sulle proprietà indistruttibili del panno infeltrito tirolese, e rimugina se sia possibile che possa essere veramente lo stesso capo di abbigliamento che portava suo zio, annegato otto anni prima nelle acque del fiume Sill. L’avvocato dimentica tutto, sia il monologo di Humer (impossibilitato a trasformarsi in dialogo) sia la causa che questi vuole intentare contro il figlio e la nuora, che l’hanno segregato nella soffitta di casa col pretesto di ingrandire il negozio e costruire un nuovo magazzino per la cellulosa. Humer, come lo zio Worringer, passeggia tutti i giorni lungo il fiume Sill, e lo ripete più volte all’avvocato, che all’opposto cerca di osservare l’etichetta del sarto che ha confezionato il loden.

“L’unica cosa erano le mie passeggiate su e giù lungo la Sill, disse Humer”, e dopo aver finito il racconto del complotto intentato dal figlio e dalla nuora a suo danno, si alza in piedi e se ne va, apparentemente senza ragione se non si considera che ha ancora indosso il loden con i sei occhielli ricoperti di pelle di capretto nera, così come lo zio Worringer otto anni prima. Pochi giorni dopo il Tiroler Nachrichten riporta la notizia di un certo H., commerciante della Saggengasse, che si è gettato dalla soffitta di casa sua ed è morto sul colpo. L’avvocato Enderer si reca al negozio del defunto, nella parte superiore della Saggengasse, e chiede al figlio di Humer il loden di suo zio.

Bernhard“Sì, dice il giovane e prende l’attaccapanni e mi porge senza tante cerimonie il loden del defunto”. Del defunto, non dice né scrive suicida, ma del defunto, e Bernhard finisce il racconto con tre puntini di sospensione. Il meccanismo lo ha già mostrato per cinquanta pagine, e forse è qui superfluo dire quello che il lettore apprende fin dall’inizio. L’avvocato Enderer, come Humer fino a pochi giorni prima, e lo zio Worringer, passeggiava quasi quotidianamente lungo la riva del fiume Sill, e mai lungo la riva del fiume Inn, come ci tiene a precisare. Ed è qui che lo immagino passeggiare, ancora per un poco, con indosso quel maledetto loden con sei occhielli ricoperti di pelle di capretto nera, che ha già stregato la sua prossima vittima.

(L’immagine a fianco è la copertina della raccolta originale di tre racconti in cui è presente Il loden – Der Wetterfleck)

Edizione esaminata e brevi note

Thomas Bernhard nasce nel 1931 a Heerlen, in Olanda, figlio di una ragazza-madre che aveva lasciato l’Austria per sottrarsi allo scandalo. Ancora neonato, viene affidato ai nonni con i quali vive, prima a Vienna, poi a Seekirchen e a Salisburgo, gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Frequenta il liceo classico, che non conclude. A diciotto anni viene ricoverato in sanatorio, dove comincia a scrivere. Pubblica racconti su quotidiani e riviste e, nel 1963, il suo primo romanzo, Gelo, che vince il prestigioso premio Brema. I suoi attacchi alle istituzioni statali e a importanti personaggi politici suscitano e continueranno a suscitare scandalo. A partire dagli anni Settanta si dedica intensamente al teatro scrivendo numerosi testi che il regista Claus Peymann mette in scena quasi sempre con l’attore Bernhard Minetti. Nel 1975 pubblica il romanzo Correzione, che alcuni critici, come George Steiner, considerano il suo capolavoro. Muore a Gmunden nel 1989.
Tra le sue opere principali: Perturbamento, Il nipote di Wittgenstein, Il soccombente, Estinzione. Il suo teatro è raccolto in cinque volumi da Ubulibri.

Thomas Bernhard, Il loden, a cura di Giulia Ferro Milone, Theoria, Roma-Napoli, 1988.

Luca Barbirati, 20 aprile 2016