“Io ho dei rancori verso il regime e il suo Duce. Non per i guai che mi hanno procurato, sebbene piuttosto pesanti. Ma per lo sperpero che essi hanno fatto di quel patrimonio di speranze che io e tanti altri giovani della mia generazione ci avevamo investito. Quando mi ritroverò a tuppertù col fascismo sul piano storico, spero che riuscirò a superare questo stato d’animo. Ma lo spero soltanto” (pp.121). Così Indro Montanelli, sul Corriere della Sera del lontano 29 dicembre 1968, rispondendo all’ex gerarca Carlo Sforza, autore del libro “La Notte del Gran Consiglio”. Un esempio piuttosto significativo sull’approccio del giornalista toscano alla storia del fascismo e soprattutto della figura del Duce, contenuto in un’ampia raccolta di scritti, a cura di Mimmo Franzinelli, il quale – giustamente – osserva come Montanelli “abbia offerto il meglio di sé negli articoli più che nei libri”.
“Io e il Duce” infatti è una vera e propria antologia di magistrali interventi giornalistici (1945-2001), in cui gli articoli di Montanelli, dalla storia della marcia su Roma fino a Piazzale Loreto, rappresentano una vera e propria biografia di Mussolini e dell’Italia fascista. Una biografia che in gran parte è anche autobiografia in quanto storia di chi ha vissuto il regime prima con grande entusiasmo per poi distaccarsene gradualmente, sempre più deluso, prendendo atto di come, in barba alla presunta “rivoluzione”, il fascismo coincidesse con Mussolini e con la sua smania di potere: “Arrivarci da destra o da sinistra, era per lui indifferente. Ed infatti c’era arrivato da tutte e due le parti, usando il manganello contro le piazze rosse per conquistare i ceti moderati di destra, vogliosi di ordine, ed inaugurando una politica assistenziale, autarchica e protezionista che gli conquistava i ceti popolari, smaniosi di sussidi”. Un ritratto del Duce che inevitabilmente irriterà sia i militanti più accaniti di destra e di sinistra: “Il fatto è che, quando parliamo di Mussolini, tutti noi che abbiamo vissuto sotto il suo segno rievochiamo quella specie di marionetta che da ultimo era diventato, corrotto da un ventennio di culto della personalità, imbalsamato nei suoi pennacchi, galloni e medaglie, e ormai senza più nessun contatto con la realtà. Ma il Mussolini del ’22 non era questo. Qualità di capo rivoluzionario e di uomo di Stato, non ne possedeva nemmeno allora. Ma come fiuto politico, intuizione, tempismo, non c’era nessuno che gli stesse a paro” (pp.24). Differenziandosi da Gentile e da altri storici accademici, Montanelli, anche negli ultimi articoli, ha sempre ribadito la sua idea che “un’ideologia il fascismo non fu. La sua storia è soltanto la storia di Mussolini, dei suoi umori, dei suoi malumori e del suo forsennato egocentrismo che, degenerato alla fine nel patologico, lo condusse alla catastrofe” (pp.287).
Come sottolinea Mimmo Franzinelli nell’ampia introduzione al volume, possiamo affermare che il nostro giornalista toscano ha avuto soprattutto un atteggiamento provocatorio e demistificante nei confronti dell’ossessiva retorica mussoliniana; tenendo conto di “altri elementi che sfuggono all’osservazione storica: il rapporto tra Mussolini e gli italiani – soprattutto quelli della sua generazione; l’infatuazione del Paese per il suo dittatore e, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la delusione e i dubbi mai sopiti di coloro che sopravvissero e si posero il problema di spiegare ai giovani le ragioni di quanto accaduto”.
Demistificazione, con dosi abbondanti di sarcasmo, che colpisce innanzitutto la personalità di Benito Mussolini, considerato dai democratici una sorta di Hitler nostrano e parimenti idolatrato senza se e senza ma dai nostalgici del regime. In altri termini la descrizione di un dittatore caratterizzato da un evidente egocentrismo, teatralità – e fin qui niente di nuovo – ma soprattutto da una fondamentale insicurezza, tanto che “di fronte alle scelte supreme aveva sempre esitato” (pp.124). Incertezze evidenziate in particolare nel racconto della marcia su Roma (“gliel’avevano imposta gli squadristi”); e in quello particolarmente dettagliato del Gran Consiglio del 25 luglio: “Spavaldo e tonitruante nella buona fortuna, l’uomo era timido e incerto in quella avversa” (pp.107). Ed ancora: “L’autoritarismo, in Mussolini, non era mai stato che la reazione a una fondamentale debolezza di carattere […] tutta la politica mussoliniana degli ultimi anni era stata una vana e pazza corsa all’inseguimento di Hitler: le leggi razziali, l’intervento in guerra, l’aggressione alla Grecia non furono altro che tentativi di raggiungere il rivale e di guadagnarsene il rispetto (pp.138). Se queste affermazioni, volendo usare un eufemismo, possono aver irritato i nostalgici e i tanti ammiratori dell’uomo forte (che a detta di Montanelli tanto forte non era), parimenti altre prese di posizione del giornalista non potranno che suscitare l’indignazione di chi è ancora fedele all’idea di un fascismo privo di consenso popolare, in un’Italia tiranneggiata da una piccola elite di nazistoidi.
La verità di Montanelli, che aveva vissuto per intero gli anni del fascismo, è ovviamente molto diversa e la esprime più volte citando aspetti autobiografici: “Soltanto gli imbecilli o gl’ipocriti possono pretendere la coerenza degli uomini che il fascismo sorprese sui banchi delle scuole elementari o del ginnasio. Essi erano nati, ma non per colpa loro, sotto il segno del camaleonte. Era fatale che dovessero contraddirsi e rinnegarsi. C’è chi lo ha fatto prima, e chi dopo. C’è chi lo ha fatto con eleganza e chi no. C’è chi ha pagato dazio e chi no. Ma tutti, indistintamente, sono passati attraverso un’abiura”. Tutto questo andando a fondo, polemicamente, contro la visione storiografica della destra e della sinistra o almeno, dopo gli studi di De Felice, di una parte della sinistra: “sui ragazzi di vent’anni deve fare un certo effetto. Essi ignorano che per la stragrande maggioranza di noi non si pose una scelta tra fascismo e antifascismo, perché questa alternativa non c’era, c’era soltanto un curriculum. L’antifascismo, per noi, si sviluppò come un fatto scismatico dentro il fascismo, così come la rivoluzione d’Ungheria è stato un fatto scismatico dentro il comunismo: perché i totalitarismi, essendo delle chiese, non comportano rivoluzioni, ma dissidenze, deviazionismi e eresie” (pp.190).
Per molti di noi questa rappresenta una verità lapalissiana ma c’è da scommettere che per altrettanti lettori – ammesso e non concesso che i più accaniti detrattori di Montanelli l’abbiano mai letto – queste affermazioni rappresenteranno l’ennesima dimostrazione del profondo animo fascista del nostro giornalista toscano; o al contrario dell’infame che ha tradito il Duce. Che dire? Meglio non aggiungere altro, se non che la lettura di “Io e il duce”, al di là delle proprie opinioni politiche – che pure non dovrebbero condizionare un’analisi onesta dei fatti storici – è un esempio di grande giornalismo, magistrale per stile nonché per piglio provocatore e polemico.
Edizione esaminata e brevi note
Indro Montanelli, (Fucecchio 1909 – Milano 2001), giornalista. Inviato speciale del “Corriere della Sera”, fondatore del “Giornale nuovo” nel 1974 e della “Voce” nel 1994, è tornato nel 1995 al “Corriere” come editorialista. Tra i suoi libri si ricordano: I conti con me stesso, XX Battaglione eritreo, Ve lo avevo detto, Ricordi sott’odio, Nella mia lunga e tormentata esistenza e Indro al giro.
Mimmo Franzinelli, studioso del fascismo e dell’Italia contemporanea, è autore di numerosi libri, tra i quali I tentacoli dell’Ovra, L’arma segreta del Duce. La vera storia del Carteggio Churchill-Mussolini, Tortura. Storie dell’occupazione nazista e della guerra civile 1943-45.
Indro Montanelli, “Io e il duce”, Rizzoli (collana “La grande storia”), Milano 2018, pp. XXX-316. A cura di Mimmo Franzinelli.
Luca Menichetti. Lankenauta, settembre 2020
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