Alessandro Sesto ci dice di lasciar stare il la maggiore, e su questo possiamo anche essere d’accordo. Piuttosto è il caso di aggiungere che i suoi lettori farebbero bene a lasciar perdere l’idea di incasellare il “Lascia stare il la maggiore” come romanzo o come racconti o come altra opera letteraria ben definita. Una volta sperimentati gli effetti goliardici delle pagine di Sesto ci si rende conto che non è opportuno perdersi troppo in disquisizioni accademiche. Più interessante semmai aver presente come l’autore sia riuscito a gestire apparenti ragionamenti filosofici e spietato sarcasmo: il filo rosso che unisce i ventidue capitoli del libro è un fantomatico gruppo rock formato da altrettanti fantomatici rocker (in realtà operai e impiegati in libera uscita) impegnati in serate tra localacci dell’area veronese – padana. Da qui un primo spaesamento che nasce dall’incontro di musicisti approssimativi con un pubblico ancor più approssimativo. Il voluto disorientamento di questi rocker indecisi tra overdose di cazzeggio e l’ambizione di affrancarsi almeno dalla sagra paesana, rappresenta la premessa imprescindibile di una comicità svagata e spesso fulminante. Magari non proprio caratterizzata da uno stile british, ma sicuramente efficace.
Del resto anche il contesto dei racconti, non proprio tipo hall of fame – ricordiamo il micidiale rap contest di Salezze (“quelli che lo suonano davvero in America dicono sempre yo, e così diciamo continuamente yo anche noi”), il cubano losco della Magic Dance School, l’epic metal degli orridi Galadriel (“nelle acconciature dimostrano un certo interesse verso il proprio aspetto, com’è normale per ragazzi della loro età, ma non finalizzato all’accoppiamento, almeno non con esseri di questo mondo”), la filosofia di Adorno e la musica arte dei Pelodicane – non poteva che prestarsi a “variazioni goldberg verbali” probabilmente indecifrabili anche da parte dello stesso narratore, perplesso e caparbio al cospetto di una fauna umana di incerta qualità: “Ci spiega che il concerto è uno scambio di insulti a ritmo di musica, insulti che, rispondendo un rapper all’altro, sono o dovrebbero essere improvvisati, ma che, aggiunge, sono più o meno gli stessi: non hai successo, fai rime di merda, sei finto, sei sfigato. Poi prende un’aria da congiura e fa che lui deve scontrarsi con un certo Mapi, contrazione di Mario Piva, e che partirà secondo, ma ha preparato una risposta perfetta che andrà bene qualsiasi cosa gli dica l’avversario. Mi chiedo se questa sua risposta a ogni possibile affermazione sia quella del noto sufi e ‘un giorno anche questa passerà’, invece viene fuori che intende cantare ‘bravo ragazzo/sei partito a razzo/ ma parliamo del fatto che ti piace il cazzo’. Questa, ci spiega l’artista, è roba forte. Allora gli dico che fa bene a sfidare le consuetudini, e che anche noi crediamo in un approccio alla musica diretto e senza cerimonie, più in un certo senso protestante, che cattolico […] Poi la nostalgia finisce perché iniziano. Il primo è appunto Mapi, che ciondola a ritmo con grazia effettivamente sospetta, incomincia con un aha aha stile 50 Cent, per saggiare il microfono, e poi fa ‘sono Mapi, ragazzo/ sono Mapi, ragazzo/Mario Piva, ragazzo/e mi piace la figa/ma mi piace anche il cazzo’. Tornando a casa ci fermiamo all’autogrill. Nessuno sente il bisogno di dire yo, e tengono banco i commenti alla scena muta fatta dal fratello al contest” (pp.94). Alessandro Sesto ha avuto un certo coraggio nel maltrattare alcuni mostri sacri della musica (tra i tanti Mahler, Verdi, Puccini, i Beatles), non fosse altro che sappiamo bene quanto l’argomento possa scatenare le opposte fazioni. Gli argomenti addotti dal narratore – musicista da balera oscillano tra micidiali luoghi comuni e puro buon senso; ed anche qui lo straniamento provocato da questi impassibili cazzari di provincia fa la sua parte. Del resto i più accorti sanno che, in campo musicale e non, sia quando si fa sfoggio di rigidità accademiche, sia quando ci si dedica a provocazioni e ad atteggiamenti anticonformisti, allora si possono aprire scenari a dir poco contraddittori e grotteschi.
Ad esempio le parole di Stefano Bollani in una recente intervista a Classic Voice, quando dice che vedeva “i musicisti jazz divertirsi e poi Arrau e Benedetti Michelangeli soffrire per non sbagliare una nota di Chopin”. Certo, se poi pensiamo a quanti jazzisti sono rimasti stecchiti in sessioni più tossiche che musicali, c’è da riconsiderare parecchio la faccenda del divertimento. Nell’opera di Alessandro Sesto l’effetto farsesco e ridanciano – ripetiamolo – c’è tutto, ma, come intuibile, non sembra nascere dalla ricerca assillante della battuta a effetto. Si coglie semmai una spontaneità e una furbissima nonchalance che trae origine innanzitutto dall’inesauribile e fecondo rapporto tra comicità e serietà (o impassibilità): come ha scritto Stefano Benni, uno che se ne intende, “comicità e serietà si attraggono e si respingono in continuazione, diciamo che ogni oscillazione dubbiosa, ambivalente della filosofia può portarla verso l’ironia e ogni oscillazione metafisica, profonda del comico lo porta verso la filosofia”. Nel caso specifico la direzione magari non è la filosofia, piuttosto la ghignata, ma il concetto cambia di poco. Di sicuro le storiacce musicali di questa anonima rock band dell’entroterra veneto vi terranno compagnia senza farvi rimpiangere troppo gli anatemi di Theodor Adorno.
Edizione esaminata e brevi note
Alessandro Sesto, nato a Napoli nel 1970, vive a Verona da oltre trenta anni. Nel 2013 ha pubblicato con Gorilla Sapiens Edizioni la sua prima raccolta “Moby Dick e altri racconti brevi”. Suoi racconti sono apparsi in diverse antologie
Alessandro Sesto, “Lascia stare il la maggiore che lo ha già usato Beethoven”, Gorilla Sapiens Edizioni (collana Scarto), Roma 2015, pag. 154. Copertina di Giorgia De Maldè.
Luca Menichetti. Lankelot, dicembre 2015
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