La strage dei congiuntivi è un divertente, divertito, dissacrante romanzo sulla deriva linguistica e grammaticale odierna, in cui le regole del buon parlare e scrivere vengono sempre più messe all’angolo da un’ignoranza diffusa che si autogiustifica con la storia della prevalenza del contenuto rispetto alla forma, dalla colloquialità, da “l’importante è capirsi” e pazienza per verbi, nomi, aggettivi inesatti, spesi in modo erroneo ed equivoco, senza comprendere come una forma adeguata aiuti i contenuti a uscire fuori. Si potrebbe quasi definire questo romanzo thriller grammaticale. Al centro della storia è un gruppo di persone scelto e guidato da Dionisio Trace – l’unico che conosce le loro vere identità e che dona loro nuovi nomi da battaglia riprendendoli, come il suo, da studiosi di grammatica e filologia – che lotta contro chi si rende reo di abusi sulla lingua, omicidi di congiuntivi, torture su aggettivi e periodi, squartamenti di forme verbali e chi più ne ha, ne metta. Il libro comincia con la morte dell’assessore comunale alla pubblica istruzione e alle politiche culturali Bill Gross Donkey, e subito cominciamo a seguire i vari protagonisti, un poliziotto, un bibliotecario, un ex professore, un analista sensoriale, e veniamo a conoscenza del loro odio per chi tartassa la lingua e di come siano stati reclutati da Dionisio. Assistiamo, senza poter fare niente, a eloqui insopportabili, trovando nei commenti precisi, puntuali, correttivi dei personaggi del gruppo l’unica alternativa al prendere a pugni le pagine del libro.
Due esempi, dalla parte iniziale e da quella finale:
“– E per fare ciò, miei cari concittatini, non ci possiamo prescintere da una doverosa promessa. Pultroppo, e ce lo sapete bene, anche sulle nostre amene colline soffiano fortissimi i venti della crisi. I tempi sono grami, gramissimi. Sulle nostre teste pente la spata di Temistocle, la spata della rescissione economica. I tagli nei trasferimenti statali e federali si ripercuoteno sugli enti locali e, in particolare, sulle risorse culturale. E di fronde a tutto questo tagliare, ta gliare, tagliare, il ruolo della cultura rischia di divendare del tutto resituale.
Il ruolo della cultura è già diventato residuale. Ne è dimostrazione questo malsano e delirante discorso, infarcito di errori e orrori che non si limitano a mettere a nudo la povertà della lingua, ma sublimano la mediocrità, sanciscono ufficialmente l’abdicazione della cultura, profetizzano la rovina definitiva dell’uomo e del suo sapere. Sono le tue parole, caro assessore, a renderci tutti più poveri, più deboli, più tristi, più disgustati, più estranei, più vinti.” (pag. 46-47)
“L’inviata – una biondina con la frangetta, probabilmente nuova del mestiere, che parla dondolando
e facendo venire il mal di mare ai telespettatori – esordisce con un Bolliscono i preparativi per la cerimonia commemorativa che domani…
Bolliscono i preparativi? Ma cosa dice! Bollire non è un verbo incoativo e la terza persona plurale dell’indicativo presente è bollono. E poi l’uso di questo verbo è completamente inappropriato. No, signorina cara che dondoli come un’altalena e ti esprimi come una cavernicola. Fervono i preparativi, al limite ardono, ma di certo non bolliscono. Bolle un liquido, bolle l’acqua, bolle il latte, bolle il brodo, bolle il sugo, bollono i fagioli o, per metonimia, bolle il paiolo. […] Bolle l’uomo, bolle per amore, per il gran caldo, per un dubbio, per l’impazienza, per lo sdegno, per la collera.
E io, in questo momento, sto bollendo proprio per la collera.” (pag. 279-280)
Se da una parte si rimane colpiti dalle proprietà linguistiche, dalla capacità dell’autore di cogliere le imperfezioni più comuni nel parlato e nello scritto e di restituirle, di commentarle, dall’altra questo alternarsi di strafalcioni e commenti sembra a volte tirare troppo la corda e rendere la lettura stancante (almeno a me), come nel secondo capitolo. Ma è un romanzo giocato sugli eccessi, in cui ogni frase è un guizzo e si fa perdonare nel volgere di un paragrafo. Inoltre, nonostante lo si possa leggere con divertimento, nonostante porti a simpatizzare per i terroristi e sia perlopiù un’accusa verso il sempre più diffuso uso scorretto della nostra lingua, fa riflettere sulla violenza come sfocio di “buone intenzioni”. Immaginare che persone amanti della lingua rinuncino ad essa (attorno a cui si sono evolute le civiltà umane) per portare avanti le proprie battaglie e finiscano con l’usare la violenza ci fa capire quanto sia facile, persino banale, alla portata di chiunque, il ricorso alla forza. La forma di lotta che scegliamo ci identifica (nonostante il contenuto), esattamente come la forma che utilizziamo per esprimerci.
Edizione esaminata e brevi note
Massimo Roscia è nato a Roma nel 1970 (qualcuno sostiene nel 1870). Scrittore, critico enogastronomico, docente, condirettore editoriale del periodico «Il Turismo Culturale». Autore di romanzi, saggi, ricerche, guide e vincitore di diversi premi letterari, ha esordito nel 2006 con “Uno strano morso ovvero sulla fagoterapia e altre ossessioni per il cibo”. L’originale noir sul rapporto cibo-nevrosi ha ottenuto in pochi mesi un grande successo di pubblico e di critica. Da qualche anno insegna comunicazione, tecniche di scrittura emozionale, editing, letteratura gastronomica e marketing territoriale. Nei minuti liberi continua a scarabocchiare e a chiedersi cosa fare da grande.
Massimo Roscia, La strage dei congiuntivi, Exòrma edizioni, 2014
ab, su lankelot, gennaio 2016
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