Le primissime pagine del romanzo di Brian Staveley potrebbero far pensare all’ennesimo fantasy sulle orme di autori ben più famosi: mappa, mondo alternativo, creature mostruose a non finire, e via dicendo. In realtà ci si potrà accorgere presto che “Le spade dell’imperatore”, primo capitolo di una trilogia, non è assimilabile in tutto e per tutto ad ai più noti ed inflazionati high fantasy. Pur in presenza della citata mappa, di un elenco di razze, di dèi antichi e di dèi moderni, il lettore non avrà bisogno di tornare più volte alle pagine iniziali per districarsi tra i tanti nomi orientaleggianti: la stessa struttura del romanzo, dove di capitolo in capitolo si alternano i tre punti di vista dei figli dell’imperatore, consente di andare oltre e di seguire il racconto anche senza avere un perfetto ricordo di cosa rappresentino Meshkent, Astar’ren oppure Heqet nel mondo fantastico di Annur.
Il prologo del romanzo “Le spade dell’imperatore” non è un caso si chiami “putrefazione” e si colloca presumibilmente migliaia di anni prima delle vicende raccontate nella trilogia: “Era la putrefazione che si era impadronita di lei, rifletteva Tan’is mentre fissava sua figlia negli occhi […] anche quelle lacrime erano un sintomo della putrefazione” (pag. 11). Sta parlando un capo dei Csestriim, una razza fisicamente simile agli umani, apparentemente immortale, responsabile della civilizzazione ma parimenti priva di emozioni, malvagia, che si racconta siano stata distrutta dagli uomini. Di fronte alla “putrefazione”, ovvero al nascere di sentimenti in una razza che ne era priva, un Csestriim non aveva esitazioni: “L’amore – rispose Tan’is assaporando quelle strane sillabe, girandole sulla lingua mentre infilava verso l’alto il coltello, trapassando i muscoli e le costole, dritto al cuore che batteva all’impazzata – come l’odio è una parola che usi tu, figlia ma, non noi” (pag. 14). La scena si sposta presumibilmente migliaia di anni dopo, quando la guerra tra Csestriim e umani, come quella tra i Nevariim e gli stessi Csestriim, a molti appare ormai una leggenda senza alcun fondamento di realtà. L’imperatore del “Trono Incompiuto” di Annur, immenso dominio che abbraccia diversi continenti, è stato ucciso in circostanze poco chiare e del delitto è accusato il gran sacerdote di Intarra, la Signora della Luce.
Soltanto Adare, la figlia del defunto imperatore Sanlitun, è presente nella capitale, anche se, nelle vesti di ministro delle finanze, si sente poco tollerata dagli alti funzionari dell’Impero. Tutto precipita mentre i suoi fratelli vivono agli antipodi del mondo conosciuto. Valyn, sulle Isole Qirin, si sta dannando di fatica e privazioni per diventare membro effettivo di una elite di guerrieri: l’addestramento impartito dai Kettral è sfiancante e violento e prevede il superamento di una prova a dir poco raccapricciante, in previsione della quale cibarsi di topi crudi risulta soltanto un mero allenamento. Al termine, i sopravvissuti, ormai pronti ad uccidere in ogni circostanza, potranno cavalcare degli immensi rapaci, come fossero una sorta di aerei da guerra. Valyn viene presto a conoscenza di una possibile congiura di palazzo per eliminare l’altro fratello, Kaden, il primogenito che è ancora intento ad addestrarsi in un eremo dell’estremo nord, tra i monaci shin devoti al Dio Assoluto.
Il futuro imperatore, isolato dal mondo civile e alle prese con inquietanti fenomeni che stanno allarmando la comunità monastica, non sa nulla di cosa sta accadendo nelle isole Qirin e ad Annur, degli omicidi irrisolti che stanno funestando i suoi congiunti, delle minacce incombenti; ma anche lui è alle prese con prove terribili: affidato ad un monaco spietato, Rampuri Tan, è consapevole che la sua missione, mediante una violenta catarsi mentale e un’autodisciplina assoluta fatta di sofferenza e mortificazione, è raggiungere il “vaniate”, una forma di assenza da tutto e da tutti, che possa permettere la conoscenza di mondi non umani, il sentire di creature un tempo presenti sulla Terra. Stiamo parlando ancora dei Csestriim che, come molti avranno intuito, pare siano ancora in vita e, usciti fuori da non si sa dove, abbiano trovato un varco per tornare nuovamente ad insidiare l’impero Annur. Il lettore lo scoprirà alla fine del romanzo, quando i due fratelli, finalmente riuniti, se la vedranno con gli affiliati ad una setta di assassini, traditori, incantatori, con tanto di creature orripilanti, sangue a fiumi, ma soprattutto con l’ombra di un misterioso Csestriim che vuole la morte di Kaden e della sua genìa.
Proprio il riferimento al “vaniate” e quindi ad aspetti misticheggianti (“la consapevolezza non portava con sé la paura” – pag. 568), che rimandano alle filosofie orientali, ci permettono in qualche modo di meglio inquadrare la citazione dal “Publishers Weejly” presente in quarta di copertina: “Un fantasy dal ritmo incalzante e dalla trama inattesa”. Leggiamo infatti: “I monaci non erano esattamente crudeli, ma non concedevano niente ai capricci delle emozioni umane. L’amore o l’odio, la tristezza o la gioia, erano corde che legavano l’individuo all’illusione del sé e il sé nel vocabolario shin era una maledizione. Si spargeva ovunque, ottenebrando la mente, intorbidendo la chiarezza del mondo. Mentre i monaci lottavano per ottenere il vuoto, il sé si infiltrava sempre, come l’acqua fredda in un pozzo profondo” (pag. 108). La formazione culturale e professionale di Brian Staveley, che evidentemente ha trasferito nel mondo fantastico di Annur diverse suggestioni di filosofia orientale, non permette di interpretare il “ritmo incalzante” come un susseguirsi frenetico di azioni alla stregua di un “24” versione fantasy.
Da un lato il linguaggio né piatto, né banale, né inutilmente barocco di Staveley, il racconto secondo le tre diverse prospettive dei tre fratelli, i personaggi delineati soprattutto nel loro aspetto più inquietante e crudele, non fanno rimpiangere affatto le pagine dei più famosi scrittori di genere. Da un altro punto di vista – e qui veniamo più precisamente alla parola “incalzante” – nel romanzo risultano predominanti non tanto le vicissitudini epiche dei Kettral o dei monaci guerrieri, tutt’al più efficace contorno di ben altro: prevalgono semmai dalla prima all’ultima pagina numerosi elementi di mistero e di ambiguità, questi sì veramente incalzanti. L’ultima pagina del fantasy, tra il colpo di scena e la furba operazione di marketing, prospetta scenari futuri molto complicati per Kaden, Valyn e Adare, e soprattutto ci lascia con un finale che più aperto non si può. C’è quindi da scommettere che i lettori di “Le spade dell’imperatore” non si faranno sfuggire il secondo romanzo del “Trono Incompiuto”.
Edizione esaminata e brevi note
Brian Staveley, ha insegnato Letteratura, Religione, Storia e Filosofia, materie che hanno influenzato la composizione dei suoi romanzi, e ha conseguito un master in Scrittura creativa alla Boston University. Lavora come editor per Antilever Press e ha pubblicato saggi e poesie.
”Le Spade dell’Imperator”e è il primo capitolo della trilogia epic-fantasy “Le Cronache del Trono Incompiuto”. Vive nel Vermont
Brian Staveley, “Le spade dell’imperatore. Cronache del trono incompiuto”, Gargoyle (collana Extra), Roma 2014, pag. 619. Traduzione di Stefania Minacapelli
Luca Menichetti. Lankelot, gennaio 2015
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