Quando nel 1935 Paul Stefan pubblicò il suo libro, Arturo Toscanini, pur alle soglie dei settant’anni, era ancora in piena attività. Due anni dopo avrebbe iniziato a dirigere la NBC Orchestra e si sarebbe ritirato soltanto nel 1954. Potremmo quindi pensare ad una biografia incompiuta e in un certo senso è così; ma appare evidente che il musicologo austriaco ha voluto privilegiare il ritratto dell’uomo Toscanini, una sorta di profilo artistico e la descrizione di un modello di moralità che poteva prescindere da una precisa cronologia di avvenimenti e di dati biografici. Del resto lo stesso Stefan Zweig, nell’introduzione, ha anticipato questo intento, per “andare oltre la semplice biografia di un direttore d’orchestra”. E, infatti, “chi cerchi di dare una visione concreta del modo in cui Toscanini serve il genio della musica, esercitando un magico potere sui suoi spettatori, descrive prima di tutto un’azione morale” (pp.5). Una genialità sofferta, sacrificata all’arte e vissuta come “sacro travaglio, un apostolato del divino irraggiungibile, non un dono del caso, ma una grazia meritata, non un tiepido piacere, ma una feconda ineluttabilità” (pp.12). Stefan, pur con qualche cedimento ad uno stile magniloquente, prosegue il suo ritratto su questa linea, non soltanto glorificando un Toscanini alieno da ogni compromesso al ribasso e quindi interprete alla stregua di un michelangiolesco “tormento e l’estasi”, ma cercando di “mostrare ciò che rappresenta e quale influenza abbia esercitato sui contemporanei” (pp.13). Proprio in virtù di questa intransigenza tutta dedicata alla realizzazione artistica, più volte Stefan ricorda il carattere del maestro tanto amabile e solare nella vita privata quanto collerico e spietato nel pretendere un’assoluta dedizione “alla verità dell’opera d’arte”: sono leggendarie le sue sfuriate nei confronti degli orchestrali e i rapporti tutt’altro che idilliaci con “i magnifici ma capricciosi cantanti italiani”, che “a volte gli diedero molto filo da torcere” (pp.41).
Se è vero che la vita di Toscanini, i primi successi professionali, gli studi di violoncello, l’esordio a diciannove anni, le prime turné all’estero, vengono raccontati per sommi capi, lo scritto di Stefan si concentra piuttosto sulle scelte di repertorio del maestro, sulla maturazione della sua idea di musica; e poi con più attenzione alla stagione dei grandi trionfi internazionali della Scala, del Metropolitan, di Vienna, di Salisburgo e di Bayreuth. Proprio quest’ultima sede sembra diventare il contesto ideale per un insolito incontro, tra tradizione teutonica e tradizione mediterranea, che spesso, a causa di antichi e nuovi pregiudizi, stentavano a comprendersi: “Per Toscanini, la convocazione in quel luogo sacro, sacro ai suoi occhi, significava il premio di mezzo secolo di culto wagneriano. Credeva fermamente che Bayreuth, e solo Bayreuth, detenesse ancora il Graal” (pp.68). Il racconto delle frequenti incursioni di Toscanini nel repertorio tedesco permettono qualche breve accenno su alcuni dei suoi più grandi rivali, direttori celeberrimi quali Gustav Mahler, Bruno Walter e soprattutto l’altrettanto mitico Wilhem Furtwangler. Accenni ma di fatto nessun intento critico e nemmeno un’autentica comparazione tra diversi stili direttoriali.
Il protagonista assoluto dello scritto rimane Toscanini e, di pagina in pagina, il lettore avrà conferma del fatto che Stefan volesse innanzitutto rappresentare l’archetipo dell’uomo geniale al servizio della musica, e in particolare l’archetipo del direttore d’orchestra instancabile e perfezionista fino alla brutalità; altrimenti non avrebbe tralasciato quei momenti di vita di Toscanini che peraltro spiegano molte delle sue scelte successive al 1935. Sappiamo, infatti, che il maestro, pur di animo nazionalista, ruppe clamorosamente col fascismo: è del 1931 l’episodio dell’aggressione squadristica nei suoi confronti a seguito del rifiuto di dirigere “Giovinezza”. Poi nel ’33 l’abbandono del festival di Bayreuth per polemica contro la presenza nazista ed ancora pochi anni dopo l’abbandono del Festival di Salisburgo a seguito dell’Anschluss. Al di là delle volute omissioni, l’impressione è che la scelta di tracciare innanzitutto un profilo morale del direttore italiano, un eroico combattente che ha sacrificato le ambizioni più terrene di fronte alle necessità dell’arte musicale, sia stata motivata proprio da quanto si poteva scorgere di inquietante in quello scorcio del 1935. Ricordiamo che la vita di Stefan Zweig, l’autore della prefazione, da lì a poco sarà stravolta, e lo stesso Paul Stefan, ebreo, fu costretto a lasciare l’Europa.
“Niente ci può ispirare tanta riverenza per questo grande esempio di abnegazione all’opera quanto il vedere un simile artista ricondurre perfino un’età confusa ed empia al rispetto dei suoi più sacri valori” (Stefan Zweig).
Edizione esaminata e brevi note
Paul Stefan, (Brno, 1879 – New York, 1943) critico e storico della musica, dal 1898 frequenta a Vienna i corsi universitari di Legge, Filosofia e Storia dell’arte, prima di studiare Teoria musicale con Hermann Graedener e composizione con Arnold Schönberg. È autore di studi su Gustav Mahler (1910) e Dvořák (1935). Dal 1922 al 1937 lavora per il periodico «Musikblätter des Anbruch». Insieme a Franz Werfel ha curato “Verdi. L’uomo nelle sue lettere” (Castelvecchi, 2013) e Arturo Toscanini (2015).
Paul Stefan, “Arturo Toscanini”, Castelvecchi (collana “Ritratti”), Roma 2015. Introduzione di Stefan Zweig.
Luca Menichetti. Lankelot, agosto 2015
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