Bruno Tinti l’avevamo già conosciuto con “Toghe rotte” e “La questione immorale”, sempre editi da Chiarelettere, e da un po’ di tempo lo aspettavamo alle prese con la materia alla quale aveva dedicato gran parte della sua carriera di magistrato: le tasse. Il lettore non deve però temere: se è vero che il diritto tributario italiano, come del resto tutto il diritto, volutamente scritto con i piedi, è qualcosa che può apparire roba per iniziati, Tinti è sicuramente riuscito nell’impresa di farsi capire, al di là di avere o meno studiato codici e giurisprudenza. Per dirla in breve: un esempio riuscito di opera divulgativa, dove però ad essere divulgato non è certo il diritto tributario in quanto tale (in poco più di centocinquanta pagine sarebbe impossibile) ma semmai i trappoloni imbastiti per far pagare le tasse ai soliti noti e salvare i patrimoni dei grandi e piccoli evasori. Grande chiarezza e semplicità quindi, ed anzi proprio lo stile fin troppo colloquiale e a volte sarcastico potrebbe essere visto come un difetto; non molto altro.
Significativo il “pretesto n. 1” che funge da prefazione: “Le leggi tributarie sono progettate per essere violate impunemente. Si tratta di pura e semplice complicità tra Stato ed evasore fiscale”. E fin qui immagino qualcuno potrebbe pensare: niente di nuovo e quindi che significato ha un libro del genere? E’ vero che qualcosa è noto anche a chi non è digiuno di economia e attualità, tipo: “l’88 per cento di dipendenti e pensionati versa allo stato 137 miliardi e 200 milioni di euro, cioè il 93 per cento del gettito tributario. E gli happy few delle libere professioni e della partita Iva si rivelano, ancora una volta, di braccino corto, concedendo 9 miliardi e 200 miliardi di euro, il 7 per cento del gettito”. L’analisi di Tinti però va oltre i puri e semplici numeri e ad alla conseguente deduzione, del resto chiara a tutte le persone in buona fede: il gettito tributario è garantito sostanzialmente da coloro che vengono tassati alla fonte (al novanta per cento lavoratori dipendenti pensionati) e che quindi pagano i servizi anche agli autonomi e a quei datori di lavoro che dichiarano meno dei loro dipendenti.
Qui entra in gioco l’esperienza del magistrato che è riuscito a cogliere tutti gli espedienti dei parlamentari avvocati, tributaristi e loro consulenti, messi in atto per salvare le terga di quel cinque per cento di evasori che altrimenti non li voterebbero più. Per non parlare di coloro che, eletti loro stessi in parlamento, sono direttamente interessati ad evadere le tasse: “l’evasione di chi paga il cinquanta per cento dei tributi non l’ho inventata io. E’ una verità che esiste. Un diritto naturale che è nel cuore degli uomini” (Silvio Berlusconi, citato in quarta di copertina). Peraltro è facile cogliere anche come lo stesso art. 53 della Costituzione (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”) sia del tutto disatteso. Questo l’esempio di Tinti: “il signor x e il signor y guadagnano entrambe 3000 euro al mese, e pagano le stesse tasse. Ma il signor x è single, mentre il signor y ha due figli e genitori a carico. Dopo aver pagato le tasse, il signor x conta i suoi risparmi, il signor y sospira sul conto prosciugato. Vi pare giusto? Certo che no. La “capacità contributiva” è quello che si guadagna, non quello che si incassa. L’utile, non il ricavo. Nessuno penserebbe di tassare i ricavi di un’impresa senza permetterle di detrarre i costi: vendo patate, alla fine dell’anno ho un ricavo di 1000; quanto ho speso per comprare le patate? Cinquecento. Bene, pagherò le imposte su 500. Ma le persone non hanno diritto a detrarre quanto spendono per il costo della vita: pagano su quello che incassano, non su quello che guadagnano. E questo è ingiusto perché, come si è visto, parità di reddito non significa affatto parità di capacità contributiva”.
Da qui la proposta: “La deduzione totale. Quello che spendo lo deduco dal reddito imponibile. Non ci pagherò le imposte- Certo, lo devo documentare. E quindi mi farò rilasciare dagli altri, quelli che mi vendono beni e servizi, regolare documento, parcella, ricevuta, fattura, scontrino che sia. E loro non potranno fare “nero”. Quindi pagheranno le imposte su tutto quello che incassano, anche loro, naturalmente, dopo aver dedotto le spese sostenute per i bisogni primari” (pag. 146). Non ultima il potenziamento dello strumento informatico sia dal lato pagamenti sia dal lato controlli. Tinti, insieme ad altri esperti del settore, non molto tempo fa è stato promotore di una riforma proprio in tal senso; ma una volta approdata alle Camere è stata del tutto stravolta e modificata in maniera tale da parare ancora una volta le terga (o meglio, le tasche) degli evasori parlamentari e non. Tra l’altro questa voglia di “nero”, e un magistrato lo capisce bene, è in stretta relazione ad un altro aspetto che appassiona i gli onorevoli: “l’evasione fiscale è necessaria per alimentare il sistema della corruzione […] è un tipico reato-mezzo. Per carità, può essere anche un reato-fine: non pago le imposte, mi godo il tesoretto, punto. Ma, in genere, evadere le imposte serve per guadagnare molti più soldi di quelli, già non pochi, che si ottengono fregando il fisco. Come? Con la corruzione. L’evasione fiscale serve per corrompere: e qui si che ci sono soldi veri” (pag. 59).
Quindi conclusione piuttosto ovvia: “tra le conseguenze dell’evasione fiscale c’è anche l’incremento della corruzione […] per questo l’evasione fiscale è il settore da cui si deve cominciare per amministrare correttamente e, ancor di più, per risanare il paese” (pag. 61). Ed invece quando si arriva in parlamento gli sforzi sono sempre quelli di assicurare l’impunità; ma con sistemi sottili che i non giuristi fanno fatica a cogliere. Un esempio recente: “una bella mattina ci svegliammo e scoprimmo che il nero non era più frode fiscale. Il parlamento ce lo aveva scippato prevedendo il nuovo immaginifico reato: frode fiscale con altri artifici” (pag. 77). In sostanza: se si può comprendere la frode, un reato che contempli anche “altri artifici”, cos’è?. E infatti da allora Tinti e i suoi colleghi non furono più in grado di contestare alcunché.
Altro esempio di trappolone con la modifica della proposta di legge scritta proprio da Tinti e dai suoi colleghi: “Mi arrabbiai veramente quando cambiarono un pezzettino, apparentemente senza importanza: Competente è il giudice del luogo dove è stato commesso il reato, così decise il parlamento” (pag. 83). Dettaglio sfuggito anche a molti cosiddetti esperti ma non ai consulenti tributaristi dei parlamentari. Il punto è ben sintetizzato da Tinti: “Vedi, con la competenza stabilita in base al luogo di accertamento del reato, tutti gli utilizzatori e gli emittenti di fatture fasulle erano indagati dallo stesso p.m. che aveva scoperto le prime fatture […] Quindi il pm teneva in stand bay tutti quelli che avevano confessato: okay, patteggeremo: ma prima tu andrai a ripetere in tribunale la tua confessione, così possiamo condannare quelli che non vogliono patteggiare […] Ma con la competenza stabilita in base al luogo in cui il reato è stato commesso, ogni fatturiere deve essere indagato e giudicato da un giudice diverso [….] Qui processi vanno avanti senza le conferme delle confessioni. E tutti vengono assolti […] con le confessioni non confermate, c’è poco da fare, il monumento di idiozia [ndr: il nuovo codice di procedura penale] prevede che l’imputato sia assolto” (pag. 87-89).
Questi altri capitoli – i titoli sono eloquenti – dove il racconto, ben dettagliato, mostra ancora orrori giuridici e straordinaria corruzione: i condoni, un condono particolare: lo scudo fiscale, il popolo dell’Iva, le soglie di punibilità, il falso in bilancio. Ripetiamolo: è un libro apprezzabile per la grande chiarezza e sicuramente da consigliare. L’unico effetto collaterale, del resto piuttosto scontato quando ci si immerge in questo tipo di letture, è l’incazzatura che ti coglie nel pensare ai 160 miliardi di euro letteralmente rubati mediante l’evasione. E poi ti fanno pure la spending rewiew.
Edizione esaminata e brevi note
Bruno Tinti (19 dicembre 1942, Roma), ex procuratore aggiunto presso la Procura di Torino. Autore di pubblicazioni, articoli e relazioni in convegni in materia penale tributaria e penale societario. Dal dicembre 2008 ha lasciato la Magistratura. Nel 2007 ha pubblicato con successo il libro Toghe rotte (ChiareLettere, 85mila copie), che è anche il titolo del suo fortunato blog sulla giustizia. Collabora a “Il fatto”.
Bruno Tinti, “La rivoluzione delle tasse. Contro il partito degli evasori”, Edizioni Chiarelettere, Milano 2012, pag. 153
Luca Menichetti. Lankelot, gennaio 2013
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