E’ esattamente il 18 marzo del 1866 che, dopo un lungo e complicato viaggio, Samuel Langhorne Clemens, alias Mark Twain, sbarcò a Honolulu nelle isole Hawaii. Inviato dal “Sacramento Daily Union” di San Francisco, il giovane cronista e futuro scrittore di fama, aveva il compito raccontare ai lettori californiani la realtà di quelle che al tempo venivano chiamate “Isole Sandwich”; e di conseguenza anche tutte le potenzialità commerciali che ne potevano scaturire per il nascente capitalismo americano, come ad esempio la locale produzione e lavorazione della canna da zucchero. In questo caso il giovane Twain appare quindi un inviato molto speciale, con un compito che potrà risultare contraddittorio rispetto quanto conosciamo del Twain più anziano e attivo membro della Anti-Imperialist League. Sappiamo anche che sono molte le contraddizioni irrisolte nella vita di Samuel Clemens; a parte il fatto qui si parla pur sempre di un uomo appena trentenne che negli anni a venire, pur sempre con le sue incoerenze e sensi di colpa, avrebbe maturato altri atteggiamenti. Niente di particolarmente strano se pensiamo che è stato Leslie Fielder, nel suo “Amore e morte nel romanzo americano”, a suggerire che “l’ambiguità è la caratteristica più notevole, forse essenziale, dei massimi romanzieri americani”.
Fatta questa premessa non vogliamo però affermare che in queste sue “Lettere dalle Hawaii”, tra contraddizioni e spirito capitalista, vi si trovi qualcosa di realmente inquietante. Mentre gli aspetti più controversi sul pessimismo dell’autore, sulle ricorrenti cupezze presenti nei romanzi e racconti, sulle sue poco felici esperienze di vita, sono stati individuati ed analizzati nelle opere più mature, le giovanili “Lettere dalle Hawaii” sono semmai da leggere come felice esempio di letteratura di viaggio e nel contempo di letteratura umoristica, se non proprio comica. Credo si possa parlare di comicità e non del peculiare umorismo nero di Twain proprio perché nello scrittore in missione alle Hawaii sembrano ancora convivere, senza una compiuta fusione e forse senza una totale consapevolezza, l’identità del moralista facile all’indignazione e quella appunto dell’umorista che si è alimentato con la cultura vernacolare dell’America meno raffinata. Visto che avevamo accennato ad una ambiguità di fondo, non da intendersi necessariamente come distorsione morale, in queste lettere il lettore potrà da subito coglierne una sua presenza con i continui passaggi, di pagina in pagina, di situazioni diverse e di diversi propositi: da resoconti precisi e degni di un fondo di economia alle descrizioni che denotano un profondo coinvolgimento per le bellezze naturalistiche dell’isola; passando sempre da lunghi intermezzi umoristici, o comici che dir si voglia, che, grazie anche alla presenza dell’incontenibile alter ego Mr. Brown, spesso e volentieri prendono di mira gli usi e costumi dei nativi: “Nelle vicinanze c’è un’interessante rovina: i miseri resti di un antico tempio pagano; un posto dove si offrivano sacrifici umani in quegli antichi tempi remoti, quando un semplice figlio della natura, abbandonandosi momentaneamente al peccato quando ne era stato estremamente tentato, riconosceva il suo errore, allorché la riflessione glielo mostrava, e si faceva avanti con nobile sincerità per offrire sua nonna come sacrificio espiatorio; in quei giorni antichi, quando lo sfortunato peccatore poteva perseverare, mondando la sua coscienza e raggiungendo una periodica felicità fino a quando i suoi parenti esistevano; molto molto prima che i missionari affrontassero migliaia di privazioni per arrivare a renderli stabilmente infelici, dicendo quanto bello e quanto felice fosse il Paradiso, e quando fosse impossibile arrivarci” (pag. 75). Un brano nel quale si colgono chiari elementi sia del sarcasmo dell’autore, in un contesto dove i pronunciamenti contro l’imperialismo sono timidi e a volte inesistenti, sia il profondo scetticismo razionalista che pare averlo accompagnato, tra alti e bassi, per tutta la vita e che troverà forma compiuta in un opera letta di recente, “Lettere dalla Terra” (edita nel 2011 per i tipi del Piano B). Opera peraltro scritta per lo più nel 1909, poco prima della dipartita terrena, e che pur intrisa di un pessimismo cosmico lontano dagli atteggiamenti giovanili del 1866, consente di delineare una sorta di filo rosso, fatto di anticlericalismo e razionalismo, che parte dalle Isole Hawaii e arriva fino al Connecticut dei suoi ultimi anni.
I quattro mesi trascorsi alle Hawaii – ancora non ufficialmente colonia americana ed in mano ad un governo di indigeni ormai per molti aspetti modernizzati, condizionati dalle potenze europee – hanno quindi consentito a Clemens – Twain dei reportage molto diversificati: tra capitani di navi, balenieri, improbabili missionari e altrettanto improbabili reali hawaiani, zanzare, gatti, boschi fioriti, cavalli, insetti micidiali, scaltri indigeni kanaka, ci vengono proposti diversi livelli di lettura, tali ancora da svelare aspetti apparentemente contraddittori del loro autore. Viene da pensare ad esempio alla critica esplicita, presente nelle “Lettere”, al progetto hawaiano di suffragio universale. Clemens – Twain trovava invece più razionale un sistema che correggesse gli eccessi democratici (o di “democraticismo”), ovvero un cittadino – un voto, con un’assegnazione censitaria che potesse assegnare voti in più sulla base della ricchezza e soprattutto dell’educazione ricevuta (salvo forse non cogliere come i due aspetti, quelli della ricchezza e dell’educazione, fossero tra loro legati). Malgrado Twain sia stato per lunghi anni elettore repubblicano, almeno così dicono le biografie, non credo che questo riferimento al voto censitario voglia significare necessariamente un approccio gretto e conservatore alla politica, non fosse altro che, soprattutto nell’ottocento, i partiti repubblicano e democratico non potevano venire intesi, usando i nostri parametri, semplicemente alla stregua di destra e sinistra. Sono prese di posizione che rivelano semmai come il cosiddetto umanitarismo di Twain sia progredito nel tempo fino a giungere ad un esplicito antiimperialismo, ma pur sempre con le molte contraddizioni e timidezze di chi ha più in animo di correggere le distorsioni e gli eccessi del liberismo piuttosto che entrare a pieno titolo nel campo di un socialismo moderato od anche soltanto di un riformismo più radicale.
Pur con tutti questi distinguo e con tutte le prudenze di un inviato che, mescolando volutamente biografia, situazioni paradossali e realtà oggettiva, aveva la missione di presentare le Hawaii ad un pubblico di potenziali investitori capitalisti, non è difficile cogliere la profonda impressione che queste isole devono aver lasciato nell’animo dello scrittore. Come giustamente scrive Alessandro Gebbia, autore con Virna Conti di un’ampia e articolata introduzione al libro, sono lettere che, se passiamo oltre i numerosi momenti umoristici o quelli meno frequenti di fredda descrizione ad uso di politici, economisti ed imprenditori, denotano un che di poetico e di malinconico tale davvero da far pensare che le Hawaii per Clemens – Twain si siano rivelate un “posto dell’anima” mai più ritrovato.
Edizione esaminata e brevi note
Samuel Langhorne Clemens, alias Mark Twain (Florida, Missouri 1835 – Redding, Connecticut 1910), scrittore americano. E’ stato editore, pilota di battelli a vapore, cercatore d’oro, giornalista e conferenziere.
Mark Twain, “Lettere dalle Hawaii”, Cavallo di Ferro, Roma 2013, pag. 302. Curatore Alessandro Gebbia. Traduzione di Virna Conti.
Luca Menichetti. Lankelot, ottobre 2013
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