“In nome dello Stato” rappresenta una delle opere più significative di Ludwig von Mises, considerato “uno dei grandi liberali del Novecento”, maestro di Friedrich A. von Hayek. Redatto in quel di Ginevra, poco prima e poco dopo lo scatenarsi della Seconda guerra Mondiale, da un von Mises in fuga dalla barbarie nazista, è un libro che sintetizza efficacemente il pensiero storico ed economico (i due aspetti sono praticamente congiunti) dello studioso austriaco. Von Mises era un teorico, un accademico, accusato da più parti di sostenere le sue tesi con un piglio fin troppo radicale ed alieno ad ogni necessario compromesso. Può essere vero ma proprio quale introduzione al libro possiamo leggere un lettera di Mises ad Alfred Müller-Armack, uno dei più decisi artefici della cosiddetta economia sociale di mercato, dove il nostro, nel complimentarsi con l’uomo politico, scrive: “Ho sempre criticato la middle-of-the-road-policy di tutte le varianti dell’interventismo, e credo di aver mostrato che esse finiscono inevitabilmente per sfociare nel socialismo vero e proprio. Ma questo non mi ha impedito di capire benissimo che i rapporti di potere politici possono costringere anche un convinto e coerente difensore del liberalismo (nel senso europeo del termini, non in quello americano) a venire a patti temporaneamente con certe misure interventistiche (per esempio, i dazi doganali) […] Di regola bisogna accontentarsi di scegliere il male minore” (pag.8).
Ottimamente introdotto da Lorenzo Infantino, “In nome dello Stato” non è soltanto il manifesto di un economista, peraltro scritto con particolare chiarezza e con una prosa che non sembra proprio quella di un barone universitario, ma esprime una rilettura della storia europea che non sempre ci capita di leggere e che possiamo dire sia ancora minoritaria. Ricordando sempre che in von Mises, a differenza di quanto accaduto sotto altre latitudini e a differenza di quanto affermato da altri accademici (si pensi a Croce), il liberalismo politico si identifica col liberismo economico. Diventa quasi impossibile distinguere i due aspetti. Von Mises aveva già drasticamente archiviato le velleità socialiste affermando, dopo la conquista del potere in Russa da parte di Lenin, che, in regime di pianificazione, vi sarebbe stata un’impossibilità di calcolo economico; e questo limite intrinseco al sistema avrebbe portato poi al crollo del comunismo. Parimenti, ed in particolare proprio negli scritti ginevrini, Mises ci ha fornito la sua personale interpretazione del nazismo ed anche dei fascismi contemporanei: non sarebbero stati una “terza soluzione” fra capitalismo e comunismo in quanto la cooperazione sociale si può svolgere in maniera volontaria, ovvero la via intrapresa dalle società libere. Oppure si può svolgere in maniera coercitiva: con la pianificazione comunista o con un generalizzato sistema di interventi autoritativi. In quest’ultimo caso l’interventismo provoca un effetto matematico: la proprietà privata non viene formalmente soppressa, ma viene svuotata di contenuto.
Sostanzialmente von Mises cosa ci vuol dire? Il nazismo e il comunismo hanno avuto non poche basi comuni (in questo senso possiamo leggere anche scritti più recenti di Luciano Pellicani), coerenti con la loro ideologia totalitaria. Con particolare riferimento all’esperienza germanica la vicenda hitleriana non sarebbe affatto una figlia, sia pure illegittima, del liberalismo, secondo la nota vulgata progressista. La verità è un’altra ed è frutto di quell’avversione nei confronti della libertà individuale e del mercato, “che è il tratto comune di tutti i membri della famiglia del totalitarismo”. Possiamo quindi iniziare a capire perché l’antisocialista von Mises non voleva essere considerato un conservatore e perché nel corso della sua vita fu pesantemente criticato sia da destra che da sinistra; e non soltanto per la sua rigidità di teorico. Dicevamo poi di questa sua “controstoria”. Effettivamente tra le righe di “In nome dello Stato” ci sono passaggi che credo soltanto da pochi anni, e senza anatemi da parte di storici ed accademici, siano stati considerati degni di meditazione. Pensiamo al socialista ed agitatore Ferdinand Lasalle nelle pagine di von Mises: “Lassalle non era nazionalsocialista, ma fu il più importante precursore del nazionalsocialismo. Rifiutò tutti i valori dell’illuminismo e del liberalismo, ma non alla maniera dei panegiristi romantici del Medioevo e dell’assolutismo; egli li rifiutava perché sosteneva di volerli realizzare in modo più autentico e veritiero […] Vassalle è pure colui che ha pronunciato la frase che meglio di ogni altra caratterizza lo spirito che dominerà il mondo subito dopo la sua morte: Lo Stato è Dio. Questo spirito ha detronizzato il liberalismo dappertutto, e anche in Germania” (pag. 32).
E quindi ancora: “L’evento più rilevante della storia politica del XIX è la rimozione del liberalismo e la sua sostituzione con lo statalismo” (pag. 47). Altri spunti significativi li troviamo nelle pagine dedicate ai nazionalismi: “Il nazionalismi in generale e il nazionalsocialismo in particolare non sono dei miti e non si basano su miti. Sono dottrine che sono nate nel mondo dominato dalle teorie dell’interventismo e dei socialismo e che, partendo dal dato di fatto del predominio di queste dottrine – che non vengono assolutamente messe in dubbio – giungono a conseguenze politiche” (pag. 96). In particolare in merito al nazionalismo tedesco: “Il nazionalismo è una dottrina politica che vuole far eseguire alla nazione, tramite lo Stato, determinati provvedimenti autoritari. Ma di questa dottrina politica non c’è alcuna traccia nelle opere dei filosofi idealisti tedeschi” (pag. 113). Non è un caso che von Mises più volte torni a ribadire la differenza tra uno sciovinismo, magari fastidioso e poco razionale, ed il vero e proprio nazionalismo. Altro passo che contrasta con certa vulgata storica riguarda il dopoguerra, come stabilito dal trattato di Versailles: “Il nazionalsocialismo era già bell’è pronto in epoca antecedente allo scoppio della Prima guerra mondiale. Esso non è, come erroneamente si suppone di solito, un prodotto della guerra e del trattato di Versailles. E’ stato il nazionalsocialismo a portare il popolo tedesco alla guerra mondiale e a determinare la sua politica durante la guerra” (pag. 127). In questa sua drastica polemica contro le idee stataliste non mancano le stoccate (a dire il vero un tantino spocchiose) agli intellettuali progressisti e socialisti (tipo Bernard Shaw, Bertrand Russel, H.S. Welles): “il giudizio che un matematico, che un batteriologo o un artista pronuncia su problemi che riguardano la cooperazione economica ha lo stesso significato del giudizio di un cieco su una pittura […] Ma ecco che il marxismo offre una via di scampo alla pigrizia mentale, risolvendo tutte le difficoltà con la proclamazione di un dogma” (pag. 180).
La sintesi finale di un pamphlet che identifica la mentalità statalista come progenitrice dei sistemi politici totalitari e negatori della democrazia non poteva che essere questa: “La ricostruzione della civiltà e l’instaurazione di un ordine politico che garantisca la pace non può cominciare dalla revisione dei trattati internazionali e del patto costitutivo della Società delle Nazioni, bensì dalla revisione delle dottrine di politica economica” (pag. 201).
Edizione esaminata e brevi note
Ludwig von Mises (1881-1973), economista austriaco naturalizzato statunitense, ha insegnato a Vienna, Ginevra e New York. E’ stato uno dei maggiori studiosi delle scienze sociali del Novecento, il riconosciuto maestro di varie generazioni. Tra le sue opere: “Stato, nazione ed economia”, “I fallimenti dello stato interventista”, “Lo Stato onnipotente”, “La stabilizzazione del potere di acquisto della moneta e la politica della congiuntura”, “Autobiografia di un liberale”.
Ludwig von Mises, “In nome dello Stato”. Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2012, pag. 214. Prefazione di Lorenzo Infantino),
Luca Menichetti. Lankelot, dicembre 2012
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